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Amore, morte e bellezza nell’Africa

The Constant Gardener

Angelo Antonio Moroni

L’Africa descritta dalla fotografia liquida, desaturata e insieme materica di César Charlone nel film The Constant Gardener del brasiliano Fernando Meirelles (City of God, 2003), rimanda assolutamente alla sua primitiva bellezza, alla sua intrinseca imprevedibilità e pericolosità ambientale e socio-politica. E’ conscio di questa dangerousness chi ha vissuto in Africa centro-orientale o ci ha viaggiato per un congruo numero di giorni, e al di fuori da circuiti turistici protetti, magari a bordo di land rover sulle strade dissestate delle sue savane. Ma la ruvidezza e la precarietà dell’ambiente africano sono anche, molto spesso, ciò che spinge molti a innamorarsene. E’ l’amore verso un’archè che l’Africa e i suoi popoli rappresentano mitopoieticamente nell’immaginario collettivo degli occidentali. Andare in Africa è infatti muoversi verso un principium della Vita, verso una relazione primaria che è anche coniunctio oppositorum, contrasto e contraddizione tra Estetica, Amore e Morte, elementi che stanno al cuore della vita stessa di ciascuno di noi. Il film di Meirelles ci parla di tutto questo a partire da una storia che possiamo definire banalmente di ‘spionaggio’. Il plot è per di più tratto da un romanzo di Le Carrè pubblicato nel 2000, ma il film va molto oltre il canovaccio della sua scrittura filmica (di Jeffrey Caine) e della fabula che la ispira.

 

 

Siamo in Kenya e Justin Quayle, funzionario dell’Alto Commissariato Britannico in quel paese tanto amato da Karen Blixen, e appassionato giardiniere nel tempo libero, apprende che la giovane moglie Tessa, durante un viaggio di lavoro, è rimasta uccisa in mezzo al deserto insieme all’autista della sua land rover. Justin è interpretato da un intenso quanto dolente Ralph Fiennes; Tessa - che indaga, senza che il marito lo sappia, sulle sperimentazioni abusive di case farmaceutiche occidentali sui popoli africani - è Rachel Weisz, giovane attrice intensamente sensuale che ricordiamo per aver già lavorato con Bertolucci in Io ballo da sola (1996). Al di là della trama che intreccia i temi dello spionaggio industriale con quello dell’attivismo politico-ambientalista, Tessa è sedotta dal suo grande amore per l’Africa e i suoi popoli, dai suoi traumi, dalle sue ferite impresse nei suoi paesaggi arsi, nei suoi deserti inospitali, nei suoi laghi circondati da terre aride e torride. Un amore che la porterà ad identificarsi col doloroso destino di conflitto e di morte di cui è fatto il tessuto storico e sociale dell’Africa stessa, a partire dalla violenza del colonialismo, dalle dominazioni arabe ed europee, dalla schiavitù e dalla deportazione di massa in Occidente. Un amore per “Mama Africa” che la porterà alla morte. Si tratta di un’dentificazione che avrebbe l’intenzione di riparare, ma prima di tutto denunciare i continui soprusi perpetrati sul Terzo Mondo anche oggi. Uno di questi soprusi è appunto la cospirazione internazionale di una casa farmaceutica che esegue sulla popolazione africana test clinici illegali per un farmaco di nuova generazione contro la tubercolosi. Meirelles non sacrifica tuttavia l’attenzione verso i personaggi al puro tema della sociale di cui è intriso tutto il film. Anche le sequenze maggiormente movimentate e che lo avvicinano a tratti al film d’azione, mantengono vivo il pathos delle relazioni tra i protagonisti: si veda la toccante sequenza della fuga di Justin dalla banda di briganti che saccheggia un villaggio Masai, nella quale si vede costretto a lasciare a terra un bambino dall’areo che lo porta in salvo. The Constant Gardener è quindi innanzitutto un film sull’Amore e sulla Morte, e su quanto queste radicali istanze siano misteriosamente, contradditoriamente ma inestricabilmente intrecciate, fin dalle origini, cioè a partire dalla comparsa del mitico ‘primo uomo sulla terra’. Non è forse un caso che, proprio in Kenya, in una zona desertica della Rift Valley, sia stata ritrovata la nostra antenata ominide Lucy, di cui possiamo oggi vedere una riproduzione dello scheletro, presso il Museo Nazionale di Storia Naturale di Nairobi. Un film dunque sull’amore/attrazione per le origini, per quella hilflosigkeit di cui ci ha parlato Freud (1925), precarietà da cui tuttavia sprigiona anche tutta la bellezza del nostro essere, e insieme a questa tutte le nostre contraddizioni umane. Un film che mi ha ricordato in questo senso le parole di Florenskij, quando, parlando di Nietzsche e del suo “ottimismo tragico”, nonché della bellezza perturbante della vita nella visione del filosofo tedesco, afferma che: “Il mondo è tragicamente magnifico nel suo frazionamento; la sua armonia sta nella disarmonia, la sua unità nella disunione” (Nietzsche, 1914). Così è l’Africa ripresa dalla cinepresa di Meirelles, così tragicamente affascinante da farci innamorare, da farci perdere in essa, ammaliati dal suo eterno, arcaico “mal d’Africa”, dal suo essere principium inattingibile come un miraggio che si sposta sempre più lontano man a mano che incediamo, con passo incerto, come Tessa, nella vita. 

 

Titolo Originale: The Constant Gardener

Paese di produzione: Gran Bretagna/ Kenya/ Germania

Anno: 2005

Regia: Fernando Meirelles

Soggetto: Jeffrey Caine

Fotografia: César Charlone

Musiche: Odile Dicks-Mireaux

Cast: Ralph Fiennes, Rachel Weisz, Danny Huston, Bill Nighy, Pete Postlethwaite

Durata: 128’

 

 

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