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eidos

Cinema e donne

Il personaggio

Annemarie Schwarzenbach

Il fascino dell’ombra. Ti vedrò nel lato oscuro della luna

Alba Michelotti

“Amando scese nel sangue più antico, nelle voragini

dove giaceva l’orrendo.”(R.M. Rilke – Elegie duinesi)

 

Zurigo – Giugno 1931. Un uomo percorre distratto il marciapiede e improvvisamente è costretto a fermarsi. In bella vista, nella vetrina di una libreria lo colpisce un piccolo libro con una foto in copertina. Quello sguardo, quegli occhi impenetrabili sembrano attraversare la sua vita e portarlo altrove. Rompe d’impeto il vetro per impossessarsi di quel libro e di quel volto.

È il volto di Annemarie Schwarzenbach. Il libro è Gli amici di Bernhard, il primo della scrittrice, pubblicato quando ha appena 22 anni.

Annemarie Schwarzenbach (1908-1942) scrittrice, archeologa, fotografa e giornalista è un’inguaribile viaggiatrice in fuga da se stessa e sempre alla ricerca di un paradiso perduto. Quello della sua infanzia, nella ricca casa di Bocken sul lago di Zurigo, e quello che cerca in ogni creatura che incontra ed ama. Viaggiare è per lei l’ossessiva, inquieta possibilità di riappropriarsi della sua vita. Fugge per ritrovarsi.

Negli anni che conducono alla seconda guerra mondiale la giovane Annemarie, inizia una serie di viaggi che abbracciano Est ed Ovest: la Russia, la Persia, il Marocco e il Congo, l’Europa del nord, gli Stati Uniti fino ad arrivare in India. Raggiunge orizzonti tanto vasti da essere inconcepibili per una donna di quegli anni rendendola sorprendentemente vicina all’inquietudine dell’anima cosmopolita contemporanea. I viaggi in Medio Oriente la segnano più di altri e rivelano a lei stessa e a noi qualcosa della voragine che la abita. Con Ella Maillart sono le prime donne a percorrere da sole, a bordo di una Ford, la rotta che da Herat porta a Kabul. Ne nasce un libro: La via verso Kabul.

Annemarie fotografa, Ella scrive appunti. Bevono il thè nelle tende delle tribù pashtun, attraversano le tempeste di sabbia e i deserti di cardi.  

Il deserto diventa per Annemarie storia e metafora della sua vita.

In Morte in Persia, pubblicato solo postumo, nel 1995, che lei stessa definisce “diario impersonale”, torna a raccontare dei suoi giorni in quelle valli desolate, fotografa uno scenario di dolore universale che oltrepassa la cronaca del viaggio e disegna un itinerario interiore colmo di dolore e di seducente bellezza.

 

Je suis Annemarie Schwarzenbach di Véronique Aubouy, 2015.

 

Un’altra valle, vicino a Theran, dove si reca con il diplomatico francese Cloud Clarac, diventa il fulcro de La valle felice, il libro che segna il suo successo e fa di lei un’autrice di culto in Svizzera, Francia e Germania.

In quelle pagine, però, di felicità non vi è traccia. La struggente valle di Lar fa da sfondo ad un io profondamente devastato. Nelle sere che scendono sempre più velocemente l’aria si colora dei colori dell’angoscia. I brividi della febbre si alternano al sudore che le inzuppa la camicia e le lava il viso scarno. È assalita dalle allucinazioni, la scuotono sussulti irrefrenabili. Un demone antico torna a consumarla, ha il sapore dell’alcool, l’odore aspro del fumo, danza dentro gli effetti della morfina gettandola nella solitudine più angosciante. Cerca disperatamente l’amore e nelle sue membra cicatrici si sovrappongono senza possibilità di guarigione. Rientra in Svizzera stremata dalla malaria e dalla morfina e viene ricoverata in clinica, come altre volte, per disintossicarsi e guarire.

Ma è con la scrittura che Annemarie esorcizza le sue angosce e realizza il suo sogno di libertà oltre la malinconia. Ripete: “Mi sento viva solo quando scrivo!”.

Scrive e fotografa. Cerca parole e cerca immagini per catturare la bellezza. Parole e immagini che mostrino qualcosa di quella parte nascosta della luna che non vede, ma che porta dentro, che l’ha rapita fin da bambina con i suoi freddi riflessi sul lago amato.

Annemarie Schwarzenbach ama fotografare ed ama essere fotografata.

Nell’aprile del 2008 con la mostra Annemarie Schwarzenbach. Eine Frau zu sehen il Museo Strauhof di Zurigo la presenta come una delle figure più rare e misteriose della scena culturale svizzera del ‘900. Quasi 7.000 fra scritti e fotografie documentano i suoi viaggi. Esprimono una sensibilità acuta, una visione amara e, al tempo stesso, lasciano trapelare un rapporto di vicinanza e di condivisione con le persone che incontra. La sua fotografia sociale è una sorta di pietas laica tutta femminile. Con essa si schiera dalla parte dei perdenti, dalla parte dell’ombra del mondo.

 

Annemarie Schwarzenbach.

 

Molto del fascino di questa suisse rebelle si trova nei suoi scatti e in quelli che la ritraggono.

“Annemarie, ora ragazzina-maschio, ora giovane donna in fiore in abito da sera, ora dandy in cravatta, ora sposa-ragazzo, …, ora donna segnata, … irraggiungibile, misteriosa come un angelo senza sesso, serio e terribile”. (Melania Mazzucco – Lei così amata). Uomini e donne si sentono infallibilmente attratti da lei, dalla tragica grandezza, dal fascino dell’androgino.

Vestita, fin dall’infanzia, dalla madre Renè con abiti maschili, Annemarie continua a vestire alla garçonne, una mano in tasca e nell’altra una sigaretta perennemente accesa.

Ancora adolescente confida all’amico e maestro di catechismo: “Sempre e solo verso una donna ho provato una calda profonda inclinazione, un intenso senso di amicizia, tutto il mio giovane e ardente desiderio e posso amare con vera passione solo delle donne”.

La fotografa Marianne Breslauer, le compagne di viaggio Ella Maillart e Barbara Hamilton, la giornalista Ursula von Hohenlohe e la pilota Maud Thyssen, Carson McCullers che le dedica “Riflessi in un occhio d’oro”, Jale, la giovane turca de “La valle felice” ed Erika Mann che la inizia all’indipendenza dalla madre e all’impegno politico contro il nazismo. Resterà di lei perdutamente innamorata per tutta la vita senza essere ricambiata.

Molte donne e nessuna. Dentro il volto di ognuna Annemarie cerca, inesorabilmente, un altro volto, quello di sua madre. Da lei irresistibilmente attratta e respinta, dilaniata e sospesa fra la rigida moralità della sua nobiltà (nipote di Otto von Bismarck) e la sua veemente gelosia.

Annemarie tenta anche l’alternativa e sposa a Theran il diplomatico Cloud Clarac. Sepolta nel deserto della sua angoscia, lui lo comprende presto, lei non sarebbe mai stata sua. Vive altrove, nei territori irraggiungibili del suo desiderio.

Annemarie percorre distanze infinite per raggiungere gli esseri umani e ne seduce l’anima senza mai trovare casa nel loro cuore.

Chi è davvero Annemarie Schwarzenbach? Difficile dirlo. Difficile riuscire a scriverlo. Alcune biografie hanno tentato di farlo. Lo ha fatto nel 2000 in maniera straordinariamente efficace Melania Mazzucco nel suo romanzo Lei così amata. Con la profondità e l’introspezione del suo appassionante racconto ha catturato “il fascino enigmatico di questa vita irregolare e bellissima consumata sullo sfondo della società letteraria cosmopolita degli anni trenta”.

Come in un gioco di specchi la sua immagine è stata produttrice di immagini. Nel Documentario Annemarie Schwarzenbach-Une Suisse Rebelle (2000) Carole Bonstein ne racconta la breve esistenza, servendosi di magnifiche fotografie e suggestivi frammenti di video della famiglia Schwarzenbach-Wille.

Nel 2001 gli svizzeri Donatello e Fosco Dubini firmano Die Reise nach Kafiristan. Con un linguaggio visivo che predilige i campi lunghi, il film ripercorre le tappe del viaggio verso l’India di Annemarie ed Ella. Al centro il fascino della Schwarzenbach ritratta soprattutto nella sua veste di esploratrice.

Con Je suis Annemarie Schwarzenbach, film del 2015, quasi una piès teatrale, la regista francese Véronique Aubouy mostra il processo di selezione dell’interprete che dovrà incarnare Annemarie in un ipotetico film dal titolo Inconsolable. Annemarie vi appare l’archetipo di una soggettività dislocata che si riproduce in molte esperienze, in una fluidità identitaria che si moltiplica nelle diverse interpretazioni dei 16 giovani attori. Come Alice in un domino di specchi, la sua figura appare e scompare, si sfoca in una fotografia abbandonata sul pavimento, si perde nella riproduzione di un gesto, si ripete negli scampoli di vita degli attori alla ricerca della loro identità. Il film (presentato in anteprima a Berlino nella sezione Panorama) lancia una scommessa sull’attualità di questa tragica, magnetica figura.

Je suis Annemarie Schwarzenbach di Véronique Aubouy, 2015.

 

Sils Maria -  Novembre 1943

Linda, la piccola stanza avvolge il suo lento, ultimo precipitare nel buio già fitto. Appena tiepido il sole d’autunno fra gli abeti del Waldhaus è il solo a vegliare su quell’angelo caduto. Lei è sola, completamente sola, come lo è stata in tutta la sua breve esistenza.

In bicicletta con l’aria del lago che le sferza il viso, lungo la strada che la conduce a Silvaplana, torna bambina. Pedala staccando le mani dal manubrio, sollevandole verso il cielo, con la luce sul volto. Un sasso appuntito, improvvisamente, interrompe quella corsa felice, la corsa della sua vita. I suoi occhi grigi, immobili guardano verso un’ultima lontana destinazione. Quasi una profezia, tempo prima ha scritto: “Le tempie fremono: il respiro si affanna…Il solitario cuore palpitante sussurra con le voci dei pozzi dell’infanzia. (…) La morte si erge dal cerchio magico del mondo. Adesso sprofondato in un sonno cupo. Ed io non sono più”. Oh no! Ci piace pensare che lei sia ancora. Che sia là dove è sempre stata, su quel lato nascosto della luna che solo creature come lei ci fanno intravvedere svelandoci il fascino dell’ombra, la bellezza della parte oscura della vita. “Ti vedrò nel lato oscuro della luna. Tu gridi e nessuno sembra sentire… Ti vedrò nel lato oscuro della luna” (Pink Floyd – The Dark Side of the Moon).

Che sia giunto il tempo di un nuovo film capace di farci sentire ancora la sua voce, di farci rivedere il suo volto!?

 

 

 

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