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Cinema e guerra

L'intervista

“Dove vola l’avvoltoio” Dialogando con Pierfrancesco Poggi

Adelia Lucattini

Qual è la visione che il cinema rimanda della guerra come fenomeno umano e sociale?

C'è un cinema di guerra che rappresenta una riflessione a posteriori, come Tutti a casa, film del 1960 diretto da Luigi Comencini o La grande guerra, una commedia drammatica del 1959 diretta da Mario Monicelli, che vengono girati, uno a quindici e l’altro a quattordici anni dopo la fine della guerra, e sono ricostruzioni estremamente efficaci e toccanti.  Roma città aperta, invece, film drammatico e di guerra del 1945, diretto da Roberto Rossellini, viene realizzato nel ’44, a guerra non ancora finita. In città, ovunque vi sono focolai vivi, ma il film viene girato lo stesso, con sprezzo del pericolo e ci consegna l’emozione dell’attualità. Non occorre ricostruire ruderi e rovine, ci sono quelli autentici della distruzione bellica.

Soldato blu (Soldier Blue), film statunitense del 1970, diretto da Ralph Nelson e liberamente ispirato al romanzo storico di Theodore V. Olsen, è apparentemente un film sulla Guerra di Secessione, in cui, per la prima volta, la narrazione si posiziona apertamente dalla parte dei nativi americani. In realtà, ciò che Soldato blu propone, è un apologo sulla Guerra in Vietnam. La descrizione del villaggio che viene saccheggiato, delle violenze inaudite perpetrate agli “indiani” ci rimanda, pur essendo realmente accaduto, a quella di un villaggio vietnamita dove sono state compiute altrettante atrocità. Quindi, pur sembrando un film retrodatato, in realtà è molto attuale e stigmatizza quella guerra nella penisola indocinese,  in cui gli Stati uniti erano impegnati in quegli anni.

 

Soldato blu di Ralph Nelson, 1970

 

Possiamo dire, quindi, che il cinema offra una visione storica e metaforica allo stesso tempo?

Si, certo. Soldato blu all’epoca fece una grande impressione sul pubblico perché mostrava gli orrori da un altro punto di vista storico. Nessuno aveva mai visto un film dove non erano gli indiani Cheyenne a scuoiare le proprie vittime, come nel cinema tradizionale, ma le “giacche blu”. E il massacro finale, dopo la resa della tribù con tanto di bandiera bianca, con corpi squartati e donne violentate, fu definito dal capo di stato maggiore, Nelson Miles: «Forse l’atto più vile di tutta la storia americana.»

 

La musica si è occupata di questo tema?

Sì certamente. Ad esempio, Le Déserteur (Il disertore) una canzone francese scritta da Boris Vian nel 1954, si riferisce a una guerra che sta finendo dopo la disfatta della Francia in Indocina, nella Battaglia di Dien Bien Phu. Dopo il 1945 si pensava che le guerre fossero finite per sempre. La Guerra d'Indocina è stato un esempio di guerra postcoloniale in cui la Francia non si rassegna a rinunciare a Vietnam, Laos e Cambogia. Questa canzone è stata tradotta in moltissime lingue, in Italia una bella versione è quella interpretata da Ornella Vanoni. Il testo è una lettera aperta al Presidente della Repubblica francese, da parte di un uomo che la guerra la conosce. Caro presidente, mi è arrivata la cartolina per andare alla guerra e io questa guerra non la voglio fare. Quand'ero in prigionia/Qualcuno mi ha rubato/Mia moglie e il mio passato/La mia migliore età.

 

Nella musica esiste un fil rouge che unisce la guerra d’Indocina e la guerra del Vietnam?

Questa canzone è stata cantata da Joan Baez, un pilastro del pacifismo internazionale. In Italia, sono particolarmente significative, La guerra di Piero di De Andrè, e Dove vola l’avvoltoio di Calvino e Liberovici. Quest’ultima canzone racconta della fine di ogni guerra e dell’avvoltoio che rimane senza cadaveri di cui cibarsi. Va dalla madre, ma lei si rifiuta di mandare suo figlio in guerra, va dai tedeschi che non vogliono più mangiare fango in terra altrui, e così il fiume, il bosco e l’eco, rifiutano corpi di soldati, e rimbombi di cannoni e bombe. Così, il rapace, deve accontentarsi di sbranare alcuni nostalgici della guerra, che cospirano per farla tornare.

Ci sono state tante canzoni a favore della guerra, molto ben scritte, da musicisti di genio e parolieri dal piglio dannunziano, come L'inno dei sommergibilisti durante il ventennio fascista o Battaglioni “M”, in cui la strofa “i continenti faranno fiamme e fior” non rende l'idea dell’atrocità del conflitto ma piuttosto l’immagine di un'avventura. Ma anche durante  il ventennio ci sono voci fuori dal coro. “È arrivata la bufera” è un brano che Rascel scrisse nel 1939 in Africa orientale italiana. Chiacchierando con un Italo Balbo, governatore di Libia e Tripolitania, domandò: «Ma non è che un giorno o l'altro noi entriamo in guerra a fianco di quel tedesco coi baffetti?», Italo Balbo rispose «Se succede una cosa del genere mi taglio i cosiddetti». Non arrivò a tanto anche perché fu abbattuto dalla contraerea italiana in volo sul cielo di Tobruk. È arrivata la bufera / è arrivato il temporale / chi sta bene e chi sta male e chi sta come gli par….» annuncia quello che succederà l'anno dopo nel 1940, con l’entrata in guerra dell’Italia, checché ne dicesse Balbo.

 

E per la satira?

I comici hanno un compito difficile perché la satira non può mai essere esplicita. Petrolini nella sua versione teatrale dell’imperatore romano Nerone, fa un’allusione chiara a chi comanda in Italia, abilmente mascherata. Nel 1943 Nino Ravasini scrive la musica per Il tamburo della banda d'Affori, canzone che ha un afflato popolare. A causa del testo, scritto da Mario Panzeri e Nino Rastelli, sarà messa sotto accusa dal regime fascista, poiché una parodia del tamburo principale della banda d’Affori che comanda 550 pifferi, lo stesso numero dei componenti della Camera dei fasci, era fin troppo chiaro a chi si riferisse.

 

Roma città aperta di Roberto Rossellini, 1945

 

Nel teatro la guerra è rappresentata come e quanto nel cinema?

Nel teatro greco la guerra è soprattutto simbolica e non invita a una presa di posizione politica. Nelle vicende degli uomini, intervengono gli dei e ne cambiano le sorti. Il contrario in Berthold Brecht che affronta il tema con un’ottica prettamente politica. In Napoli milionaria! una commedia del 1945 di Eduardo De Filippo, si rappresenta la distruzione prodotta dalla guerra, non solo quella materiale ma anche nella vita e nell’anima delle persone. La guerra corrompe, trasforma la protagonista donna Amalia in una speculatrice, attraverso la borsa nera. Il marito che torna dalla guerra si trova di fronte a una situazione che gli fa addirittura più orrore di ciò che ha passato.  Nella guerra non c'è nessuna speculazione sugli altri, la guerra nella sua crudezza ha delle regole, mentre nella società civile, la disgregazione delle famiglie e della coesione sociale, porta verso una devianza. Sul campo di battaglia c'è la morte ma la guerra che coinvolge i civili, è una guerra sporca che ne corrompe i valori e l'organizzazione stessa. Perché possa passare il tempo dell'orrore è necessario seminare qualcosa di diverso, come il gesto di una vittima di donna Amalia, un uomo ha cui ha portato via tutto, approfittando del suo stato di bisogno, che le porta generosamente il farmaco per salvare la vita a sua figlia. «Ha da passa’ ’a nuttata!» è la frase semplice e simbolica di questo cambiamento auspicato.

Un’altra frase importante, questa volta nel film Platoon del 1986, scritto e diretto da Oliver Stone, è quella pronunciata alla fine dal protagonista: «Noi abbiamo combattuto una guerra contro noi stessi». Una frase molto chiara dell'essere coinvolti in una vicenda, senza avere gli strumenti per capire. Molti registi hanno realizzato film di denuncia dell'annichilimento che la guerra produce, ci sono però anche film a favore della guerra. L’esempio più famoso è I berretti verdi, diretto, prodotto e interpretato da John Wayne che era un personaggio importante della destra repubblicana americana. Quel film fu molto divisivo in Italia. Quando è uscito in pieno ’68, c’erano i picchetti davanti ai cinema, era un’impresa andare a vedere il film.  

 

 

Berretti verdi di John Wayne, Ray Kellogg, 1968

 

La musica popolare da sempre si occupa di guerra…

Nella fantasia fiabesca dei contadini, le canzoni delle “malmaritate”, raccontavano con lamentazioni ripetute ciò che era capitato loro in sorte per via degli uomini. Sono presenti  in tutta l'Italia e sono truci come le favole d’un tempo, che servono a fortificare i bambini di fronte a ciò che fa paura e a esorcizzare il male.  Ad affrontare la vita, in pratica.

Donna lombarda, la canzone popolare più diffusa in tutto il territorio nazionale, narra di una moglie che tradisce il marito, ubriacone e dispotico. L’amante la istiga ad avvelenarlo. Nell’orto di un convento c’è un serpente. «Prendi la testa di quel serpente e tritala ben…»

Mettila in un bicchiere e quando arriva il marito stanco e assetato, domandagli se vuole del bianco o del nero. Ma quando il marito sta per bere, avviene il prodigio: un bambino di solo nove mesi lo avvisa: «Papà non lo ber, che c’è il velen.» Ma quando l’uomo sta per uccidere la donna traditrice, il bambino prende ancora la parola: «Non l’ammazzar, che m’ha allatta’!» Se l’uomo segua il secondo consiglio o no, nessuno lo sa.

 

Il tuo primo romanzo ambientato vent’anni anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, mostra proprio le conseguenze individuali e sociali a distanza…

La banda di Tamburello, è ambientato nel 1963 in alta Versilia. È incentrato su una banda musicale in cui viene assassinato il suonatore della grancassa che ha un passato fascista. Ormai siamo distanti dal primo dopoguerra, nel 1963 si è già in pieno boom economico che però non tocca ancora la zona della montagna. L'indagine parte subito con un indiziato, un suo compagno di banda, suo amico pur essendo anarchico. Un fascista e un anarchico. Entrambi non vanno a votare e il voto all’epoca era obbligatorio. I carabinieri si recavano a casa dell’astenuto e chiedevano la motivazione del gesto, oggi non basterebbe l'esercito per andare a chiedere perché le persone non vanno a votare! Interrogati, l'uno diceva perché era a favore della dittatura e l'altro perché era per l’anarchia, entrambi non amavano la democrazia. Valori comuni, l'amicizia e la musica, che permettevano di superare antiche divergenze. Si verrà a scoprire che non solo l'anarchico non è l'assassino ma ci sono ben altre cose, molto più gravi, che non appartengono ai tempi della guerra ma alle attitudini degli uomini. L’uomo, come diceva Rousseau, nasce buono ed è la società a corromperlo, oppure, come sosteneva Hobbs, Homo omnis lupus? Cioè l'uomo già nasce con una propensione alla sopraffazione e alla soppressione dell’altro?

 

La tua conclusione qual è?

Nei miei romanzi non prendo posizione, ma forse il mio pessimismo sulla natura umana traspare. La conflittualità tra le persone è latente, e così l’ostilità preconcetta verso gli altri, la difesa del proprio territorio quale che sia, affettivo, lavorativo, ambientale, e la volontà di punire e sostituirsi alla legge. La più grande invenzione del cristianesimo è il perdono, padre della tolleranza e parente stretto della gentilezza e del garbo.

Un atteggiamento gioioso verso chi ci circonda penso sia terapeutico, fa bene all’anima e all’umore e di conseguenza al corpo. La guerra è il contrario proprio di questo. E rendere la vita difficile all’avvoltoio sarebbe un nostro imperativo etico. O almeno, quello di non imitarlo.

 

 

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