Cinema e progresso
Nel film
Everything Everywhere All at Once di Daniel Kwan & Daniel Scheinert (USA, 2022) ha vinto sette premi Oscar nel 2023: film, regia, colonna sonora, sceneggiatura originale. È un’opera estremamente originale, sorprendente, pirotecnica, con cui i registi, a partire da una fabula familiare molto semplice, generano una sperimentazione cinematografica che illumina e nello stesso tempo oscura tutte le nostre certezze. Offre lo spunto per importanti riflessioni sia sull’impatto della tecnologia sulla nostra psiche e sulle nostre relazioni interpersonali, sia sul futuro dell’umanità. La protagonista è Evelyn (Michelle Yeoh), immigrata cinese negli Stati Uniti, che gestisce una lavanderia a gettoni insieme al marito Waymond (Ke Huy Quan) un uomo quieto e gentile. La donna sta attraversando un periodo molto difficile della sua vita: il marito le ha chiesto il divorzio, frustrato dalla mancanza di dialogo tra loro, deve gestire il vecchio padre demente e, soprattutto, ha un rapporto molto conflittuale con la figlia adolescente, Joy (Stephanie Ann Hsu) — disperata tanto da desiderare di morire — che non riesce capire e di cui non accetta l’omosessualità. Gli affari di famiglia non vanno bene, l’attività è sull’orlo del fallimento e sotto il mirino di una spietata funzionaria del fisco (Jamie Lee Curtis). Proprio durante un incontro nell’ufficio di quest’ultima, Evelyn incontra per la prima volta la «versione» di Waymond proveniente da un universo chiamato Alphaverse. Alpha-Waymond spiega a Evelyn che esistono molti universi paralleli, poiché ogni scelta fatta crea un nuovo universo. Le persone dell’Alphaverse, guidate dalla «versione» Alpha di Evelyn, hanno sviluppato una tecnologia chiamata «salto-verso», che consente loro di accedere alle abilità, ai ricordi e al corpo delle loro controparti dell’universo parallelo. Il multiverso è minacciato dalla versione Alphaverse di Joy, la perfida Jobu Tupaki. In grado di sperimentare tutti gli universi contemporaneamente e di manipolare la materia a suo piacimento, con il suo potere ha creato un buco nero a forma di bagel, la cui forza attrattiva vuole distruggere Evelyn e tutta la sua famiglia. La lotta feroce per la sopravvivenza si conclude con il ritorno di tutti i componenti della famiglia nel loro, e nostro, universo. Il film è intriso di citazioni esplicite, che vanno da Tarantino a Gilliam, fino a Nolan e Kubrick, per arrivare al ciclo dei film dell’Universo Cinematografico Marvel incentrato sui supereroi, in particolare quelli che introducono il tema del multiverso di Doctor Strange (2016, 2022) e gli ultimi Spider Man (2017, 2021). Ha una struttura complessa che si sviluppa in tante direzioni narrative differenti e simultanee, in un moto frenetico che potremmo definire quantistico. La sceneggiatura è infatti costruita su diverse dimensioni, che si rifrangono continuamente in modo frattale, cioè come un oggetto geometrico che si ripete nella medesima forma, ma in scale diverse. Questa modalità proteiforme si evolve tuttavia chiudendosi in un cerchio perfetto. Lo spettatore segue la protagonista attraverso differenti rifrazioni del suo Sé che si scompone in tempi e luoghi diversi, con la sensazione che davvero si compia «tutto ovunque e in una volta sola», attraverso un multiverso spazio-temporale che si forma e trasforma ad un ritmo velocissimo davanti ai suoi occhi. Everything Everywhere All at Once dall’inizio si immerge palesemente nel concetto di multiverso.
La teoria del multiverso è una teoria cosmologica che suggerisce l’esistenza di diversi universi, ciascuno con le proprie leggi fisiche e costanti fondamentali. Tuttavia, il concetto di multiverso, soprattutto nelle sue varianti più speculative, ha ispirato il pensiero anche al di fuori del campo della fisica. In particolare, ha influenzato la cultura e l’immaginario collettivo per quanto riguarda il modo di concepire la tecnologia e il suo impatto sulla psiche e sull’evoluzione della realtà e dell’umanità. La teoria del multiverso può essere collegata alle realtà virtuali e ai mondi virtuali interattivi, creazioni digitali progettate per simulare aspetti della realtà o essere completamente immaginarie. Nella realtà virtuale, le persone possono creare avatar personalizzati o identità virtuali che possono differire dalla loro identità nella vita reale e offrire esperienze altamente immersive e stimolanti che, in confronto, rendono la realtà quotidiana meno interessante o eccitante e portare a una dissociazione tra identità virtuale e reale, come sembra accadere ai personaggi del film. Invece l’ultra-esposizione all’infodemia e l’iper-connessione a internet, ai media e ai social in cui tutti noi siamo immersi, tanto da non esserne appieno consapevoli, non viene affrontato direttamente nel film. Tuttavia, Everything Everywhere All at Once rappresenta in modo straordinario le conseguenze di tutto questo, come dichiarano anche i due registi in un’intervista. «Jobu-Joy è come personaggio cresciuto in internet che sta lottando per essere capito da sua madre, che non è cresciuta in internet. Tutti noi viviamo questa continua sensazione di essere connessi con tante storie contemporaneamente, senza sapere a quale interessarci veramente, quale seguire, quale davvero è importante per noi» (https://www.corriere.it/sette/oscar/notizie/everything-everywhere-all-at-once-lizza-11-statuette-racconta-l-america-buco-nero-83304fe8-c03c-11ed-9ffb-d1e9e17ae86b.shtml).
Sullo schermo viene ‘incarnato’ quello stato di frammentazione del Sè che possiamo riscontrare soprattutto nella generazione Z (i nati tra il 1997 e il 2012) dei nativi digitali. Joy si trova a visualizzare tutte le sue possibili vite nello stesso istante, esperienza che tanti di loro possono trovarsi a sperimentare seguendo i diversi personaggi che incontrano sui social (Influencer, YouTuber, Tik-Toker, Streamer), con centinaia di migliaia di followers. Sembrano tutti vivere vite davvero straordinarie, sono famosi, ricchi, possono apparire felici o anche disperati, ma sono sempre «visti», seguiti e amati. Come ci raccontano molti giovani pazienti, si immedesimano in loro e fantasticano una serie di possibili vite immaginarie, in cui tutto appare realizzabile ed eccitante. In questa dimensione virtuale nulla appare sacrificabile e la fantasia onnipotente è quella di poter vivere tante vite, tutte contemporaneamente: vedono e sentono tutto insieme, in ogni luogo, nello stesso momento. L’impatto con la realtà quotidiana diviene quindi frustrante e deludente, con il rischio di venire risucchiati nel bagel, la ciambella-buco-nero che nel film racchiude appunto everything everywhere all at once, presi da un bisogno insaziabile che può portare ad una sorta di collasso della mente. Quando «tutto importa», è terrificante affrontare il mondo, perché ogni azione è piena di rimpianti, di sensi di colpa, in un modo che può essere paralizzante. In questa dimensione ‘tutto’ coincide con ‘caos’ ma qual è la quota di caos che una mente può tollerare? Non riuscendo a prendere una decisione, incapaci di affrontare i vincoli e le rinunce che una scelta comporterebbe, tornano ad immergersi ancora più profondamente in dimensioni virtuali di vite non realmente vissute. «Tutto ha importanza» si trasforma nel contrario, «nulla ha importanza», come dice Jobu Tupaki. È per questo che vuole distruggere l’universo: è sola e non vuole più esistere. «Più l’universo sembra comprensibile, più sembra insensato», ha dichiarato il fisico Steven Weinberg. I giovani sono terrorizzati dall’idea di compiere scelte sbagliate davanti alla moltitudine di strade che appaiono tutte potenzialmente percorribili.
Come è possibile sapere quale è quella giusta se non è possibile conoscerne prima le conseguenze? «Come facciamo a sopravvivere al rumore? A riportare la nostra attenzione sulle cose che davvero importano e a coloro che amiamo, in un mondo che ricava profitti dalla nostra attenzione?”, si chiedono allora i registi. Jobu Tupaki va a caccia delle diverse versioni di sua madre nel tentativo di trovare quella che possa condividere il suo immenso dolore, dare un senso alla sua esistenza: «Non ti stavo cercando per ucciderti. Cercavo solo qualcuno che potesse vedere quello che vedo io, sentire quello che sento io». All’inizio del film, a Evelyn viene detto che di tutte le diverse «versioni di se stessa», lei è quella con meno talenti, che ha fatto scelte che non l’hanno portata a essere ricca e famosa, quanto piuttosto una perdente. Tuttavia, se non avesse fatto queste scelte, non sarebbe mai stata in grado di salvare sua figlia: «Ogni rifiuto, ogni delusione ti ha portato a questo momento». Evelyn che urla, che sente tutto, è completamente disancorata e persa: sta provando l’esperienza di avere smarrito i suoi punti di riferimento, i valori morali e sociali, il significato di ciò che accade e il senso della sua stessa vita. Può capire quello che sta vivendo Joy. Per riuscire ad aiutare la figlia, per comprenderla fino in fondo, entrare nel suo mondo, è costretta a ripercorrere tutta la sua vita e a rivalutare le sue scelte, scoprendo anche molto di se stessa. Nell’accompagnarla in questo viaggio, lo spettatore capisce con lei che l’essenziale è riconoscere le scelte fatte come proprie, perché solo queste possono portare a vivere pienamente la propria vita, ad affrontare i momenti difficili e a godere frammenti di felicità, che stimolano a non fermarsi, a scacciare la tentazione di essere risucchiati dal buco nero della disperazione. Diventa consapevole che ci vuole tempo e pazienza, che bisogna compiere un percorso nel nostro mondo interno, scoprire i desideri più profondi, arrivare a conoscere i propri limiti e le proprie possibilità. Come scriveva Nietzsche (1886): «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro.
E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». Sono gli oggetti cui siamo affezionati, sono le persone che amiamo che fanno la differenza. Nel mondo del digitale, quello dei numeri e dei computer, uno vale uno, punto e basta, ma nel mondo reale non funziona ancora così. “Voi non siete simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente - disse il Piccolo Principe al cespuglio di rose - nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. […] Voi siete belle, ma siete vuote. Non si può morire per voi. Certamente, un passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho annaffiato. […] Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa”. Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry (1943) arriva a fare queste riflessioni sulla sua rosa dopo aver esplorato tanti pianeti. Tanto citato da essere conosciuto a memoria, è facile tornare da lui a cercare le parole giuste. Dopo decenni, ecco che il suo viaggio nel cosmo di pianeta in pianeta si può paragonare a quello di Evelyn di universo in universo, alla ricerca di qualcosa per cui valga la pena di vivere e di lottare, per arrivare a comprendere il valore che Joy ha per lei, perché è lei sola sua figlia, con la sua giovinezza inquieta. Alla fine, Evelyn sceglie la vita che ha vissuto, consapevole delle sue scelte, e si concede la possibilità di avvicinarsi a Joy, una figlia alla ricerca di una madre che la accetti così com’è, che sappia raggiungerla nella disperazione in cui è caduta, che sappia ridarle speranza. Everything everywhere all at once è anche un racconto su quel mondo occidentale in cui alle persone era stato promesso il “multiverso”, il consumo infinito, la realizzazione delle libertà individuali e di tutti i Sé possibili. Ma quelle persone forse, almeno in parte, hanno capito che l’universo non è né ostile né amichevole. È semplicemente indifferente (Holmes, 1879–1964). Dicono ancora i registi che «a ciascuno nell’oscurità non resta che produrre la propria luce. La everything bagel che ordini al bar, la ciambella di tutti i gusti possibili, simbolo della società del benessere, si è trasformata in un buco nero». Everything everywhere all at once appare infine la metafora di un viaggio nell’inconscio, nell’esplorazione della psiche umana che sta sperimentando una mutazione che la psicoanalisi ha la necessità di conoscere, perché il cosiddetto progresso non risucchi l’umanità nel bagel-buco nero del «nulla ha importanza». Le crisi globali mettono in discussione il futuro dell’umanità. L’avvento della digitalizzazione e gli sviluppi dell’intelligenza artificiale hanno condotto a cambiamenti culturali e sociali irreversibili. Queste modifiche hanno portato enormi conseguenze nel mondo esterno, ma anche nel mondo interno e nella mente delle persone, nelle relazioni interpersonali e sociali, e quindi nella psicopatologia e nella clinica. Il Disagio della Civiltà (Freud, 1919) si è trasformato in «disagio digitale»: questa è la sfida attuale per la psicoanalisi.
Un ringraziamento ad Alvise Batticciotto per il suo contributo a questo scritto.
Titolo originale: Everything Everywhere All at Once
Paese di produzione: USA
Anno di produzione: 2022
Regia: Daniel Kwan e Daniel Scheinert
Cast: Michelle Yeoh, Ke Huy Quan, Stephanie Hsu, Jamie Lee Curtis e James Hong
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