Cinema e guerra
Cult
Poco dopo l’inizio della guerra in Ucraina, ho sentito il bisogno di ripensare la lezione di umanità che Tolstoj ci ha lasciato con il suo capolavoro. Propongo dunque una piccola passeggiata costeggiando ora le pagine del romanzo, ora le immagini del film di Vidor, ora le note di Virginia Woolf sull’anima russa, inseguendo la domanda ineludibile del carteggio Einstein/Freud: perché la guerra? Nel secondo epilogo scritto da Tolstoj – sembra che egli si trovasse così bene con i suoi personaggi da non volerli più abbandonare, tanto che dovette scrivere due epiloghi: uno tutto per loro, e uno per la Storia – l’autore si chiede dunque: perché la guerra? Che cosa induce intere masse a uccidere, assediare, distruggere, in nome di un fine che di fatto non le riguarda? Chi ispira davvero gli eventi? Il condottiero? La vanità? La sete di potere, l’ambizione? La follia? Il caso? In polemica con gli storici antichi e moderni, Tolstoj non crede alle teorie secondo cui il destino dei popoli sarebbe nelle mani di pochi uomini. “Perché avviene una guerra o una rivoluzione? Non lo sappiamo…”.
Tale sconfortante conclusione, assume tuttavia un senso positivo nel sontuoso poema che lo precede, offrendo non una risposta, ma l’esempio del proprio lavoro di scrittore: la creazione artistica, sola a conferire un valore agli eventi della Storia. Un valore di natura ingannevole, creato attraverso una ‘fiction’, e per questo tanto più vero. Un valore costruito dall’opera della mente creatrice, capace di non offrire presunte verità ma che, trattenendo l’ansia di chiudere la realtà nel noto, la apre invece alle infinite variazioni/interpretazioni dei singoli destini umani.
Confesserò subito il mio debito di gratitudine nei confronti dell’adattamento cinematografico del romanzo-fiume di Tolstoj prodotto da De Laurentis nel 1956, regia di King Vidor e Mario Soldati, con Audrey Hepburn, Mel Ferrer, Henry Fonda. A differenza dei tolstojani convinti, pur essendo un’assidua lettrice, non ce l’avrei mai fatta a vincere la resistenza giovanile di fronte ai tre volumi massicci, all’orribile traduzione allora disponibile, all’impazzimento dei nomi russi tra patronimici e diminutivi, per non parlare delle lunghissime parti in francese. Invece, grazie all’incanto di una giovanissima Hepburn nella parte di Natasha che danza tra le braccia del principe Andrej (Mel Ferrer, che nella vita aveva appena sposato) il romanticismo ha avuto la meglio sull’antipatia che allora provavo per il conte Tolstoj, misogino e bigotto: ho letto e riletto e apprezzato. Grazie al cinema. Macchina spettacolare secondo le intenzioni di De Laurentis, Guerra e Pace è un film-monumento realizzato per stupire le platee con la magnificenza dei colori, le sue scene di guerra, i balli, i duelli, la ritirata nella neve. Concepito da Vidor come “un’opera sinfonica, una creazione musicale”, inevitabilmente compie una riduzione e una semplificazione del grande romanzo ideato da Tolstoj, autore cui – secondo Virginia Woolf – “non sfugge un colpo di tosse o un tic delle mani, da lui sapientemente associato a qualcosa di nascosto nel carattere, cosicché conosciamo i suoi personaggi non solo dal modo in cui amano e dalle loro opinioni sulla politica e sull’immortalità dell’anima, ma anche da come starnutiscono e tossiscono”.
Anche la Woolf, come Tolstoj, si interrogò a lungo sulla distruttività umana, scrivendo pagine appassionate contro la guerra. In un saggio intitolato “Il punto di vista dei Russi”, notò che nei grandi romanzi russi “è l’anima che conta, la sua passione, il suo tumulto, la sua sconcertante mistura di bellezza e infamia”. Essi ci rivelano “un nuovo panorama della mente umana. Le vecchie divisioni si fondono l’una nell’altra. Gli uomini sono allo stesso tempo malvagi e santi, i gesti sono insieme meravigliosi e deprecabili. Amiamo e odiamo contemporaneamente.” Nei romanzi russi c’è sempre qualcuno che, come Pierre in Guerra e Pace, “raccoglie in sé tutta l’esperienza, si rigira il mondo tra le dita e non cessa mai di chiedersi, persino mentre ne gode, quale sia il senso e quali dovrebbero essere i nostri scopi” (V. Woolf, The Russian Point of View, 1925). Siamo proprio noi, insomma, ad attaccare ciò che abbiamo amato, persino mentre ne stiamo godendo. Credo che non ci sia commento migliore per quel titolo icastico: Guerra e Pace, tre parole che circoscrivono il nucleo stesso dell’essere “umani”, incessantemente mossi tra i poli estremi di odio e amore, vita e morte, grazie a quella piccola “e” di congiunzione.
L’opera, come sappiamo, ha il respiro del poema epico, copre un arco di tempo (1805-1820) che dalle guerre napoleoniche arriva fino all’insurrezione di tutto il popolo russo e alla sconfitta di Napoleone. Indaga la vita di individui della buona società russa in tempo di pace e le scelte dolorose cui la guerra li costringe. Personaggi principali, attorniati da una miriade di personaggi secondari, non per questo meno essenziali nel dramma, sono Pierre, Andrej, Natasha. Un amore infinito scorre tra loro con andamento carsico, scomparendo nell’urto con eventi che li separano, e riapparendo con magiche epifanie che trasfigurano il corso delle loro vite. Per tutta l’opera l’autore segue i suoi personaggi grandi e piccoli con attenzione appassionata, con una simpatia che gli fa dire (in una lettera a Gorkij): “… quando scrivo, provo improvvisamente pietà per qualche personaggio e allora gli do qualche qualità positiva, o ne tolgo qualcuna a qualcun altro, così che in confronto agli altri, possa non apparire troppo nero”.
Nella visione di Tolstoj non c’è pace senza guerra, la guerra alberga – che lo sappiamo o no – nel cuore di noi tutti. La grande, spettacolare guerra dei condottieri e dei generali, che è anche la guerra di una moltitudine di soldati e di gente qualunque trascinata insieme ai grandi nel vortice insensato della Storia – non è l’unico campo di battaglia. Uomini e donne (sì, anche le donne) sono esistenzialmente in guerra con sé stessi, e combattere un nemico esterno, sia esso la natura ostile o l’esercito di uno Stato confinante, è uno dei modi possibili per deviare l’abisso che è in noi. E non c’è un senso nei fatti in sé, senza la tensione di un’anima che li interroga, mentre li vive e li soffre, persino godendone. La tensione creatrice mai paga di sé: che si distribuisce un po’ qui, un po’ là, ora nella timidezza di Pierre, ora nell’ardore di Andrej; qui nella bellezza dei cavalli, là nell’orrore di una granata che esplode in mezzo a uomini sfigurati dalla paura della morte; questa è la lezione del narratore. Come nota Alessandro Piperno in un bellissimo intervento sul Corriere della Sera, “Non c’è modo più efficace di interrogarsi sul mistero della vita che valutarlo attraverso il diaframma dell’immaginazione”.
La genesi del film è una storia avventurosa quasi come il romanzo ispiratore, anch’essa tramata di amore e conflitti. Durante la Seconda guerra mondiale Dino De Laurentis, rifugiato a Capri con Mario Soldati e altri intellettuali, legge il romanzo e ne rimane affascinato: subito comincia a pensare di ricavarne un film. Passeranno però diversi anni prima di cominciare le riprese (1955) e, oltre l’enorme lavoro preparatorio, si dovranno affrontare diverse battaglie per portare a termine l’impresa. Esempio del clima culturale in Italia in piena guerra fredda, l’ambasciatrice americana Claire Boothe Luce pretese garanzie da Ponti e De Laurentis contro la commie infiltration a Cinecittà, dato che il 90 per cento delle maestranze della Paramount erano iscritte alla CGIL. La regia venne affidata a King Vidor, che lavorò soprattutto a Cinecittà, affiancato dal piemontese Mario Soldati, che avrebbe girato tutte le scene di battaglie, preparate minuziosamente a tavolino e realizzate in Piemonte. Nel film si dovette ricostruire in Italia la Russia dell’800, le architetture di Mosca e le tenute di campagna. Vi ritroviamo la palazzina di caccia di Stupinigi, col meraviglioso salone centrale, lo scalone di Juvarra a Palazzo Madama, il cortile del Castello del Valentino, dove si svolge la scena dell’armistizio tra Napoleone e Alessandro I. La battaglia di Austerlitz venne girata nelle campagne di Pinerolo, quella della Beresina lungo gli argini innevati del Po. Borodino fu riprodotta a Montelibretti, a cinquanta chilometri da Roma. La produzione della neve artificiale richiese lunghe ricerche ed esperimenti, dato che i tre quarti degli esterni richiedevano luoghi coperti di neve. Per non parlare dei costumi, delle cinque troike originali fatte arrivare dalla Russia e dei duecento cannoni, delle centinaia di comparse, i cinquemila fanti e gli ottocento cavalieri messi a disposizione dall’esercito italiano. Nel film perdiamo molte cose dell’epica del romanzo, che non è solo quella delle battaglie e dei chiari di luna sulle distese di neve, ma anche piccoli dettagli come lo splendore degli occhi di Marje, sorella bruttina del bellissimo Andrej, legata al padre da un amore tormentoso e assoluto, che arrossisce ‘a chiazze’, ma il cui sguardo illumina ogni scena in cui compare. Perdiamo, purtroppo, “il cielo lontano, alto, eterno” in cui Andrej, caduto in battaglia abbracciando la bandiera, scorge qualcosa di immenso e una grande pace. Ma ci restano gli occhiali sul naso di Henry Fonda (Pierre), l’imbarazzo con cui se li spinge sul naso quando è emozionato; ci resta, senz’altro, la grazia di Audrey Hepburn che danza raggiante col suo principe che, come dicevo prima, di per sé merita il nostro incanto. E ci resta la geniale metamorfosi del generale Kutuzov – l’attempato epicureo, scaltro e flaccido, non alieno all’adulazione quale emergeva dalle fonti storiche- nel personaggio creato da Tolstoj, l’uomo saggio e temperante che con il suo stoicismo, buonsenso e modestia ha saputo incarnare lo spirito russo. “L’unica battaglia che conta è l’ultima battaglia”, dice Kutuzov, lasciandoci a pensare (assieme a Virginia, che non ebbe paura di combattere) quale sia il vero avversario che tutti ci attende.
Sarebbe troppo aspettarsi che anche i Russi di oggi ripassassero quella lezione?
Titolo originale: Schindler's List
Anno: 1993
Regia: Steven Spielberg
Musiche: John Williams
Cast: Liam Neeson, Ben Kingsley, Ralph Fiennes, Caroline Goodall, Jonathan Sagall, Embeth Davidtz, Malgorzata Gebel, Shmuel Levy, Mark Ivanir