☰  
×
eidos

Cinema e guerra

Cinema e Psyche

Guerre&pace. L’immaginario cinematografico della guerra.

Da Ombre rosse a The Search esaltazione, critica e legittimazione del conflitto armato

Andrea Arrighi

“Guerre&pace” è stata la prima rivista su cui ho scritto in merito al collegamento che il cinema può proporre con la tematica della guerra, ma anche con la politica e la società in generale. Era una rivista, ora credo interamente on-line, che si occupava mensilmente di tutti i conflitti in corso nel mondo. Approfondiva importanti tematiche che erano e – soprattutto – sarebbero diventate di scottante attualità negli anni successivi, come, ad  esempio,  il tema  dell’acqua come risorsa  scarsa e quindi così preziosa da creare pretesti per conflitti economici e armati. Per tratteggiare sommariamente l’immaginario cinematografico rispetto alla guerra mi piace ripartire proprio da un articolo di quei tempi in cui mi chiedevo se fosse più utile “salvare” il soldato Ryan o rivisitare e riscoprire il cinema di Kubrick in quanto discorso sulla complessità della guerra e sull’inevitabilità del male stesso come elemento inseparabile della sfera umana. Nel noto film di Spielberg (Saving  private Ryan di S. Spielberg, USA, 1998) un battaglione cerca a tutti i costi di ritrovare e portare a casa un soldato disperso in Normandia, nei giorni successivi al famoso sbarco americano  del 1944. Dopo molti morti tra gli americani che cercano il loro compagno d’armi e tra i tedeschi che ricoprono l’abituale ruolo di “nazisti”, il soldato Ryan verrà rimpatriato con successo. Nel finale Ryan si chiederà, con ansia, se è stato degno di essere sopravvissuto rispetto ai tanti “morti  appositamente per lui”  nel venirlo a salvare. Anche noi potremmo chiederci se è giusto un simile sacrificio di vite umane per “salvare” un singolo militare disperso. Il film di Spielberg risponde affermativamente con convinzione, anche riproponendoci la guerra nei suoi aspetti più cruenti e talvolta evitabili.  Nei primi quindici minuti del film si assiste, infatti, nel momento dello sbarco, ad una carneficina incredibile per il numero di uomini massacrati dai tedeschi. Il film mostra, nei dettagli più duri e scioccanti, questo assembramento di corpi di giovani soldati che muoiono senza neppure poter sparare un colpo o dimostrare il loro “valore in battaglia”. La crudezza della guerra viene descritta senza sconti per lo spettatore. Ma il film giustifica questo massacro: giusto è salvare un singolo uomo, come lo è sacrificare molti soldati per la causa anti-nazista. Lo spettatore, invece, qualche domanda, almeno in quei momenti se la pone. Viene poi confortato, lo stesso spettatore, nel finale: Ryan sembra soddisfatto, anche se dubitante, della sua vita da privato cittadino che ha potuto vivere grazie al sacrificio di tanti compagni di guerra.

 

The Search di Michel Hazanavicius, 2014

 

Facciamo un salto indietro, un flashback nella storia del cinema, provando a riprendere esempi importanti per l’immaginario che il cinema ci offre della guerra nelle sue drammatiche varianti.  Agli esordi del cinema stesso, ne La Nascita di una nazione, (The Birth of a Nation, di D.W. Griffith, USA, 1915) la forza brutale, armata e convintamente  razzista, viene esaltata proprio perché pensata come inevitabile e necessaria. Questa pellicola ha infatti lo scopo di difendere il Ku Klux Klan, setta che apertamente, ancora oggi, vuole la sottomissione o l’eliminazione totale dei discendenti di quegli afroamericani un tempo trasportati come schiavi nella neonata America. La “nascita di una nazione” è necessariamente violenta in sé, viene affermato: c’è sempre qualche popolazione che “deve essere” sottomessa e ridotta in schiavitù da una etnia più forte militarmente. E il genere “western” per molto tempo non fa che dichiarare valida questa tesi. In questo caso non sono solo gli afroamericani ad essere presi di mira, ma, soprattutto, i nativi americani, i cosiddetti “pellerossa”. Le pellicole forse più note che si prestano ad essere esempi eloquenti sono Ombre Rosse (Stagecoach, di J. Ford, USA, 1939) e Passaggio a Nord Ovest (Northwest Passage, di K. Vidor, J. Conway, W. S. Van Dyke, USA, 1940).  Nel primo, una carovana viene assalita da indiani “feroci e sanguinari”, che mirano solo a uccidere i “pacifici” viaggiatori bianchi. Tutto il film si concentra sulla criminalizzazione di chi, il popolo dei nativi americani, nella realtà storica, è stato letteralmente invaso dagli europei, in fuga dal loro luogo d’origine e in cerca di nuovi territori e dotati di armi più potenti con cui sono riusciti, in un tempo relativamente breve, a commettere un autentico genocidio nei confronti dei pellerossa. I nativi americani ora vivono infatti in riserve e sono numericamente ridottissimi in termini di popolazione. In Ombre Rosse sono quindi gli indiani che, attaccando la diligenza, vengono rappresentati come i “cattivi” da sconfiggere. In Passaggio a Nord-Ovest un comandante dell’esercito inglese esorta a uccidere senza pietà i nativi americani in quanto si sono dimostrati particolarmente duri nell’affrontare l’invasore bianco. Il comandante racconta nel dettaglio le atrocità commesse dagli indiani, omettendo un dettaglio: sono i bianchi inglesi gli invasori che mirano ad annientare i nativi del territorio americano. Quindi queste due pellicole non solo sostengono la guerra come metodo di conquista e “civilizzazione” di altri popoli, ma propongono anche una falsificazione del dato storico: il popolo invaso è quello “cattivo”, che non accetta l’invasione di un’altra etnia, quella bianca europea (francese e inglese) che viene a “civilizzarlo”, imponendo con la forza un nuovo modo di vivere. “Arrivano i nostri” è il termine con cui, nei western classici, veniva indicato l’esercito americano che entrava in azione nel momento “giusto”, quello più pericoloso per bianchi attaccati da indiani. In Ombre Rosse la diligenza viene infatti salvata proprio dall’esercito che interviene nel finale e risolve, uccidendo gli indiani, descritti come “malvagi   aggressori”.

 

 

Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg, 1998

 

Il ’68, il cinema e la guerra. I “cattivi” siamo noi

I western degli anni ‘70 del ‘900 ribaltano il copione, per così dire: si cerca, con una “dose progressivamente crescente di autocolpevolizzazione”, di ristabilire almeno la verità storica: gli indiani sono gli aggrediti e gli europei gli aggressori, spietati nel loro mettere in atto un tipo di genocidio che è stato anticipato in quella che verrà chiamata America Latina. A questo proposito, non sono molti i film famosi che raccontano il genocidio nei confronti di Incas, Maya e di tutte le popolazioni che i conquistatori spagnoli, dopo l’arrivo del nostro Cristoforo Colombo, si trovarono davanti. Mission (di R. Joffé, Regno Unito, 1986) è un film degli anni ‘80 che racconta di un militare bianco “pentito” che vuole aiutare gli indios, ma che verrà fermato dai suoi stessi compaesani portoghesi e anche dalla chiesa cattolica, nel suo intento di proteggere i nativi nel voler continuare ad abitare i loro luoghi di nascita ora diventati terra di conquista.

 

Mission di Roland Joffé, 1986

 

Comunque è a partire dal movimento di studenti e giovani lavoratori del 1968 – che soprattutto nel mondo occidentale ha messo in discussione i centri di potere costituiti, come  università, fabbriche, governi, ma anche modelli socioculturali ritenuti  antiquati e repressivi –   che anche il cinema ha ritenuto opportuno e indispensabile  fare “autocritica”, come si diceva a quei tempi.

In Un uomo chiamato cavallo (A Man called Horse, di E. Silverstein, USA, Messico, 1970) viene raccontato il percorso di conversione di un inglese bianco, catturato da una tribù di indiani Sioux, che finisce per comprendere, valorizzare ed aderire in modo convinto ai valori dei nativi che il destino gli ha fatto incontrare in modo violento. Il rituale di iniziazione, particolarmente cruento e mostrato interamente, a cui il bianco si sottopone, è preceduto da un discorso in cui il protagonista europeo ammette i propri pesanti pregiudizi, così come riconosce che anche la tribù che lo considera solo un “cavallo”, ora, dopo averci convissuto anche forzatamente, gli appare composta da esseri umani dotati di regole precise ed efficaci per la sopravvivenza. Dopo che avrà affrontato con successo il rituale iniziatico, diventerà anche capo della stessa tribù e insegnerà loro specifiche tattiche militari, dei “bianchi”, per difendersi meglio da un attacco improvviso e potenzialmente letale di una tribù nemica. Una storia analoga la ritroviamo in Piccolo grande uomo (Little Black Man, di A. Penn, USA, 1970): tutta la vicenda mira a raccontare come il protagonista, anche lui in origine bambino bianco costretto a vivere con gli indiani Cheyenne che hanno ucciso i suoi genitori e lo hanno adottato, arriva a far cadere in trappola il celebre generale Custer. Il protagonista suggerisce infatti al noto generale di arrivare proprio in un punto critico, Little Big Horn, dove troverà non donne e bambini indifesi da massacrare facilmente, come era abituato a fare, ma indiani che lo aspettano e che uccideranno lui e il suo reggimento. Anche in questo caso il protagonista si era adattato molto bene alla cultura Cheyenne e, una volta riportato tra i bianchi, aveva compreso la natura criminale della sua etnia di appartenenza.

 

Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick, 1964

 

Nessuno di questi film è “pacifista”. Anzi. Viene fermamente ribadito il diritto all’autodifesa e la consapevolezza che il conflitto armato – attraverso archi e frecce, fino alle armi più temibili – proprio perché creazione specifica dell’animo umano, risulta quindi difficilmente ineliminabile del tutto. In Un uomo chiamato cavallo lo scontro tra invasori bianchi e indiani è accostato al conflitto permanente tra tribù dei nativi (Apache, Irochesi, Sioux, ecc.). Il protagonista insegna, come ricordato, proprio ai suoi ex aguzzini, che lo hanno trattato per diversi anni come un “cavallo”, come difendersi meglio. In Soldato blu (Soldier Blue, di R. Nelson, USA, 1970) un ufficiale dell’esercito americano diserterà per non dover uccidere una tribù di indiani che ha avuto modo di conoscere approfonditamente, stringendo anche un legame sentimentale con una “indigena”. Questi sono solo alcuni esempi di come il genere western abbia saputo mettersi in discussione, fino ad arrivare a criticare la violenza come mezzo di risoluzione dei conflitti. Ma non come mezzo di autodifesa.

Il mondo del “Far west” in generale, usato ancora oggi come metafora per indicare un ambiente dove viene messa in atto sistematicamente “la legge del più forte”, è raccontato con voluta esasperazione anche dal regista Sam Peckimpah, con contributi noti come Il mucchio selvaggio (The Wild Brunch, USA, 1969). In Pat Garret e Billy the kid  (di S. Pechkimpah, USA, 1973) viene evidenziato anche un meccanismo rintracciabile in tanti conflitti tra persone o nazioni contemporanei: ad un certo punto un alleato o “amico” viene trasformato in “nemico” per motivi imprecisati o perché necessario per mantenere o cambiare l’ordine costituito. Nelle scene iniziali il futuro sceriffo Pat Garrett si reca in visita “pacifica” dal suo vecchio amico Billy the Kid per comunicargli ufficiosamente e in modo preventivamente amichevole che tra pochi giorni lui diventerà sceriffo e dovrà dargli la caccia in quanto noto fuorilegge: invita Billy a lasciare il paese e fuggire velocemente in Messico. Il denaro è il motivo di fondo: Pat Garrett è stato assoldato da ricchi proprietari terrieri che sono stanchi delle attività di rapina del “Kid”. Pensiamo alle diverse alleanze tra politici (non solo) italiani che si trasformano successivamente in conflitti insanabili e notiamo come questo meccanismo sia stato raccontato già nei western post 1968. Naturalmente in Pat Garrett e Billy the kid viene mostrato il Far west per come è stato realmente: un mondo durissimo e spietato, dove ci si uccide anche tra amici, se la necessità lo impone. Anche Clint Eastwood ha descritto questo mondo pure lui esaltando appositamente la crudeltà, come nel film Gli spietati (Unforgiven, di C. Eastwood, USA, 1992), dove è lo stesso protagonista del film stesso a riflettere amaramente sul significato di uccidere un avversario.  

 

Violenza “da ridere”

Violenza e conflitti finiscono per essere trattati anche con ironia.  Bud Spencer e Terence Hill, in diverse pellicole cercano di raccontare un mondo dove regna sovrana la “legge del più forte” e loro, senza particolare convinzione, dato che ricoprono loro stessi quasi sempre ruoli da fuorilegge, finiscono per punire i prepotenti di turno, come, giusto per citare un esempio, in Lo chiamavano Trinità (di E.B. Clucher, Italia, 1970).  Qui i due noti amici, veloci nello sparare e nel fare a pugni, aiutano una comunità di mormoni a liberarsi di arroganti pistoleri, messicani ubriaconi e di aspiranti proprietari terrieri senza scrupoli. La violenza viene comunque attenuata: in questo “western-spaghetti”, dopo qualche sparatoria, sono gli stessi due protagonisti che propongono ai loro numerosi avversari di risolvere ogni controversia con lunghe scazzottate, piuttosto che versare inutilmente del loro sangue. La legittima difesa viene ad un certo punto sostenuta e applicata  anche dai religiosi che inizialmente si erano dichiarati “pacifisti radicali”:  intuiscono infatti, citando le antiche scritture,  che esiste anche un “tempo giusto per combattere”, non per attaccare, ma almeno per difendersi.

Sono diversi i contributi che cercano di alleggerire il tema della violenza, non soltanto in guerra.    Benigni cerca, ad esempio, di sdrammatizzare i campi di concentramento, nel suo noto La vita è bella (di R. Benigni, Italia, 1997), facendo credere a suo figlio che camere a gas e deportazione in generale siano solo un gioco, al solo fine di dargli speranza e non farlo cadere nella disperazione in cui sono avvolti gli altri prigionieri del campo. In Tren de vie (di R. Mihaileanu, Francia, Belgio, Romania, Israele, Paesi Bassi, 1998) il conflitto tra nazisti e zingari ed ebrei in generale viene pensato come una questione di ruoli che si assumono: gli zingari vestiti da gerarchi nazisti che trasportano su un treno altri zingari vestiti appositamente da deportati ebrei, finiscono per interpretare troppo alla lettera il loro ruolo e risultare eccessivamente dispotici nei confronti di chi interpreta invece il ruolo di deportato.  E l’ironia si gioca precisamente su questo fraintendimento: come nel celebre esperimento dello psicologo statunitense Zimbardo, anche nel film il semplice impersonare con grande convinzione un ruolo, fa si che ogni persona finisca per credersi o comunque comportarsi realmente come un gerarca nazista, un carceriere o un carcerato o un deportato e ritenga gli sia dovuto fornire o ricevere rispetto e privilegi.

I due protagonisti di La grande guerra (di M. Monicelli, Italia, 1959) cercano anche loro di sdrammatizzare tutte le criticità del primo conflitto mondiale: si scherza cercando di non essere arruolati o durante la pericolosamente noiosa e dura vita nelle trincee, cercando, ad un certo punto, di accaparrarsi un pollo tra due postazioni nemiche. Si prova a mediare anche con gli austriaci che stanno per fucilarti: “è questo il modo di trattare gli esseri umani?” chiede spaventato ma con un filo di disperata ironia un Gassman impeccabile, prima di essere ucciso.  Sempre Gassman e, questa volta, Tognazzi, interpretano due personaggi allo sbando all’indomani della fine del primo conflitto mondiale. Ne La marcia su Roma (di D. Risi, Italia, 1962) i due sembrano prima contrapposti in schieramenti avversari ma successivamente, vista la situazione confusa e difficile, finiscono per aderire entrambi, anche se con qualche dubbio, all’ideologia e militanza fascista. In questa pellicola si guarda, con una certa ironia, alla graduale trasformazione della violenza che da minacciosamente verbale arriva a sfociare in omicidio e presa del potere antidemocratico. Sordi cerca di proporci uno sguardo ironico anche per il tragico finale del secondo conflitto mondiale in Tutti a casa (di L. Comencini, Italia, 1960), raccontando lo smarrimento della popolazione italiana, e dei militari, dopo l’accordo firmato da Badoglio che decretava una situazione pericolosamente ambigua per gli italiani, che finiranno per trovarsi divisi tra chi sceglie di rimanere fedele all’ex alleato nazista e chi, invece, decide di combatterlo. Nel finale il protagonista sentirà il bisogno di eliminare proprio questa ambiguità passiva e neutrale, che coinvolgerà tantissimi italiani, e si arruola con i partigiani per difendere il paese dai nazisti, ma anche dagli italiani repubblichini. Lo farà prendendo parte alla battaglia, invece che fuggire come aveva fatto da inizio film, stanco della guerra. Anche in questo caso la critica alla guerra si ferma di fronte alla necessità dell’autodifesa, unica modalità, in questo caso, per riportare una pace accettabile per il proprio paese.     

 

Full Metal Jacket e The Search: la guerra come strumento da utilizzare il meno possibile

Torno all’inizio del mio discorso per concludere con il cinema di Kubrick, citato all’inizio. L’immaginario della guerra e della violenza in generale è stato trattato in maniera ancora oggi significativa da questo indiscusso maestro del cinema: la domanda di fondo, nella maggior parte dei suoi film, è, come riconosciuto da numerosi critici, quella etica, cioè della scelta tra bene e male. Ripensare il contributo di Kubrick significa quindi correggere la risposta del film di Spielberg: salvare un singolo militare vale la vita di tantissimi soldati? Kubrick probabilmente risponderebbe negativamente, mostrando la violenza nei suoi aspetti più sconvolgenti per il pubblico: le scene più drammatiche non sono infatti  mostrate interamente, come potrebbe accadere in un deludente  film horror :  in Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, di S. Kubrick, USA, Regno Unito, 1971) , ad esempio, lo stupro o i pestaggi sono accennati piuttosto che descritti, nei momenti più impressionanti.  L’intento è proprio quello di lasciare che sia lo spettatore a “immaginarsi” il peggio di una scena drammatica.  Ma se vogliamo entrare nello specifico dell’immaginario di guerra, allora sono almeno due i contributi da considerare. In Orizzonti di gloria (Paths of Glory, USA, 1957) viene descritto come i soldati possano essere considerati semplice “carne da cannone”, cioè vittime destinate ad essere tali solo per mantenere una posizione conquistata a qualunque costo, anche seguendo tattiche militari palesemente assurde. Nella seconda parte del film si discute se fucilare dei soldati, solo per “dare il buon esempio” agli altri, o, in altri termini, per diffidare chiunque dal disertare o disobbedire agli ordini, anche se decisamente discutibili.  Questa pellicola di Kubrick è fortemente critica proprio dei metodi militari considerati disumanamente assurdi. In un modo analogo, anche se differente per il periodo storico, in Full Metal Jacket (di S. Kubrick, USA e Regno Unito, 1987) viene raccontata, nella prima parte, la possibile fine di una recluta, particolarmente affezionata al suo fucile e, soprattutto, che vede nelle armi il riscatto agli insulti alla sua persona rivolti dal capitano addestratore: la recluta, una volta diventata impeccabile nell’uso della sua arma, uccide il capitano e si spara in bocca. La seconda parte del film racconta episodi della guerra in Viet-Nam, un “inferno” già raccontato accuratamente anche in Apocalypse Now (di F.F. Coppola, USA, 1079) o in Il Cacciatore (The Deer Hunter, di M. Cimino, USA, 1978). Ogni film, compreso quello di Kubrick descrive i momenti di guerra ma, anche l’addestramento, la filosofia di vita e il grave disagio fisico e mentale – specialmente ne Il cacciatore – di chi sopravvive alla guerra. I problemi che la guerra provoca anche nei momenti di resistenza, all’interno delle città è descritto anche in La battaglia di Algeri (di G. Pontecorvo, Italia, 1966). Come anche in Full Metal Jacket, tuttavia, la guerra di resistenza, al colonialismo francese o agli invasori americani in Viet-Nam non viene criticata. Certamente comporta gli orrori che oggi caratterizzano ogni conflitto armato.   

The Search (di M. Hazanavicius, Francia, 2014) è un film più recente, particolarmente riuscito, che ci riporta, almeno in parte, alle tematiche di Full Metal Jacket. Si ritrova l’addestramento brutale del “vero” soldato, che si spinge quasi ad uccidere a pugni e calci un suo compagno, per dimostrare ai soldati “più anziani”, di essere ormai ben preparato a combattere sul campo. Il conflitto è quello della guerra in Cecenia scatenata dai Russi nel 1999.  Una volta al fronte, un’altra prova “iniziatica” alla guerra, per uno dei soldati protagonisti sarà uccidere, anche per sbaglio, un civile inerme e… riuscire a non farsene un problema morale troppo “ingombrante” psicologicamente. “Ho ucciso il mio primo civile”, arriverà a dire, con una buona dose di alcol in corpo, ai suoi compagni che approvano con un sorriso non troppo amaro. Il film racconta infatti di civili che sfuggono miracolosamente ai soldati russi. Un ragazzino protagonista del film vede entrare in casa sua uno dei soldati che hanno appena ucciso i suoi familiari. Il soldato cerca altri civili da uccidere o fare prigionieri o da violentare. Vede un bambino piccolo che piange e si limita a mettergli un ciucciotto in bocca, calmarlo momentaneamente e andarsene. E’ una scena indirettamente spietatissima: come potrà sopravvivere quel bambino da solo? Il ragazzo fuggirà poi con quel suo fratellino, anche lui risparmiato da una pallottola nemica. The Search è appunto la ricerca di aiuto o di parenti rimasti che questo ragazzino realizzerà in tanti modi, quasi sempre con suo fratello in braccio. The Search ci riporta al presente, alla guerra in Ucraina, simile in diversi aspetti a quella avvenuta in Cecenia e ai tanti conflitti identici o minori lontani dai riflettori dei (nostri)  telegiornali o social network. The Search è simile a Full Metal jacket: racconta, come quasi tutto l’immaginario cinematografico, il conflitto armato come orrore squisitamente umano per risolvere controversie varie ed eventuali, l’addestramento militare come formazione imposta e autoformazione a tollerare quello stesso orrore, ma anche la guerra come legittima difesa da parte di popoli brutalmente aggrediti.  

Da un punto di vista Junghiano possiamo dire che la guerra rappresenta, nei suoi aspetti più discutibili, un lato Ombra del singolo e della collettività. Non ci libereremo mai della possibilità di usare armi, anche quelle più temibili, perché questa scelta rappresenta la libertà stessa di agire in un modo – discutibile e magari criminale – piuttosto che in un altro. La possibilità dell’autodistruzione è il lato oscuro delle scoperte scientifiche più brillanti. Non c’è ovviamente la possibilità di cancellare queste invenzioni stesse dalla mente umana. Con ironia ancora una volta è Kubrick a ricordarci, paradossalmente in uno dei suoi film più “comici”, cioè il Dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I learned to Stop Worrying and Love the Bomb, Regno Unito, 1964) la possibilità di scegliere, da parte di due presidenti di due superpotenze, di lanciare una bomba potenzialmente letale per il pianeta o almeno per il genere umano. Ognuno di noi se da un lato si impegna affinché i conflitti armati si riducano al minimo per numero e per pericolosità delle armi utilizzate, dall’altro lato, come suggerisce il titolo completo dell’ultimo film di Kubrick citato, ciascuno ha imparato non tanto ad “amare la bomba”, ma a non preoccuparsi più di tanto. Altrimenti non riusciremmo a vivere.

 

Riferimenti bibliografici

Arrighi, A.  (2015), La soluzione trascurata. Bene e male nella psicologia junghiana raccontati attraverso il cinema, Alpes, Roma.

Chion, M. Stanley Kubrick, L’umano, né più né meno, Lindau, 2020.

 

 

 

 

 

 

Vedi tutto il numero





La redazione è a disposizione con gli aventi diritto con in quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nelle citazioni delle fonti dei brani o delle foto riprodotti in questa rivista.