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eidos

Cinema e donne

Approfondimento

Il cinema di Justine Triet

Pulsione passione e metodo

Anna Piccioli Weatherhogg

Il grande successo di critica e di pubblico riconosce a Justine Triet, vincitrice a Cannes della Palma d’oro con “Anatomia di una caduta”, un traguardo di chiarezza logica ed efficacia estetica, il pieno sviluppo delle tematiche che ispirano fin dagli inizi l’idea di cinema che le sta a cuore. Prima tra tutte, la convinzione che pubblico e privato, vita professionale e vita privata siano ambiti inseparabili, costitutivi di quel “groviglio della complessità”, che la nostra epoca è chiamata a testimoniare: a partire dal vissuto singolare di ciascuno. Ma vediamo come si sviluppa e come si chiarifica sempre di più lo sguardo di questa giovane donna, formatasi come artista all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, mentre collaborava con la fotografa tedesca Barbara Leisgen.

 

Sibyl - Labirinti di donna di Justine Triet, 2019.

 

I cortometraggi Trasverse (2004), L’amour est un chien de l’enfer (2006) e il documentario Sur place (2007) sono ‘piccole storie’ all’interno della grande Storia.  Durante manifestazioni o eventi pubblici, i volti e i gesti dei singoli affiorano e scompaiono nella massa, come trascinati dalla corrente di un fiume in piena.

Nel 2009, con Des ombres dans la maison, documentario ambientato nella periferia di San Paolo in Brasile, Justine si concentra sempre più sui personaggi: Gustavo, ragazzino quindicenne, sua madre alcolista, e Vittoria, assistente sociale che deve decidere se procedere con l’affido di Gustavo a una famiglia sostitutiva. I tre protagonisti, immersi nella vita collettiva dei predicatori evangelici, sono accompagnati negli interni delle loro case, con un racconto intimo e preciso.  

La sperimentazione con il genere fiction comincia con il corto Vilaine fille, mauvais garcon (Two ships, 2012) commedia centrata sull’incontro di due giovani artisti, Thomas, pittore, e Laetitia, attrice. La loro lunga notte, cominciata come occasione amorosa si trasforma in una specie di corsa a ostacoli, un va e vieni (esasperante/esilarante) tra la camera da letto dove ci si vorrebbe conoscere e luoghi pubblici dove si viene chiamati.

Il primo lungometraggio, La Bataille de Solferino (Age of Panic, 2013), mescola fiction e documentario in una forma coraggiosamente originale. Il film si volge a Parigi il giorno della sfida elettorale tra Holland e Sarkozy a Rue de Solferino, storica sede del Partito Socialista. La protagonista del film, Laetitia (Laetitia Dosch), è una giornalista della TV che deve seguire i sostenitori di Hollande, ma proprio quella sera l’ex marito si presenta a casa per vedere le figlie. Finisce che tutti loro si presentano in Rue de Solferino, dove nel mezzo della vera disputa elettorale, scoppia anche la battaglia privata tra Laetitia e il suo ex. La lite furiosa tra i due prosegue nell’appartamento di lei, dove il conflitto raggiunge un’intensità terrificante, corrispondente al clima delle opposte fazioni politiche. Alla fine, arriva anche il nuovo fidanzato di Laetitia, e gli uomini si ritrovano a parlare tra loro: una specie di rito confessional di solidarietà maschile (che ricorda Husbands di Cassavetes).

 

Anatomia di una caduta di Justine Triet, 2023.

 

I due lavori successivi, Tutti gli uomini di Victoria (2016) e Sibyl. Labirinti di donna (2019) si concentrano sulla figura femminile (interpretata in entrambi i film da Virginie Efira) al centro di vicende potenzialmente tragiche, irresistibilmente divertenti, sempre sconcertanti. Victoria è un avvocato di successo, che si lascia coinvolgere nella difesa di un amico accusato del tentato omicidio della sua partner. Mettendo a repentaglio carriera e rispettabilità, alla fine riesce a dimostrare l’innocenza dell’accusato grazie alla testimonianza di uno scimpanzé.

Sibyl è una psicoterapeuta che vuole tornare a dedicarsi alla scrittura. Mentre sta prendendo congedo dai suoi pazienti, non resiste alla richiesta d’aiuto di una giovane attrice sconosciuta, Margot, rimasta incinta dell’attore con cui sta recitando nel suo primo ruolo da protagonista, il quale è anche (ahimè!) compagno della regista. Tutti volano a Stromboli (autoironico omaggio a Rossellini) per le riprese, e Margot, che non riesce a prendere la decisione di abortire, supplica Sibyl di raggiungerla. Succede di tutto: un vortice di sconfinamenti e di svelamenti, dove nessun limite “regge”. Sibyl, chiamata a contenere la disperata Margot per assicurare il buon esito delle riprese, Sibyl così capace di mantenere il controllo della situazione quando tutti sembrano impazzire, a un certo punto sconfina più di tutti: si ubriaca da star male, fa sesso in spiaggia con l’attore, si fa scoprire…Ma soprattutto, usa tutte le sedute (registrate di nascosto) per scrivere il suo romanzo.

 

Tutti gli uomini di Victoria di Fritz Lang, 2016.

 

E arriviamo infine (2023) ad Anatomia di una caduta, thriller e courtroom drama. Sandra, scrittrice tedesca, è accusata di aver spinto il marito (anche lui scrittore, ma di lingua francese) giù dal balcone della loro baita nelle Alpi provocandone la morte. Sandra si dichiara innocente, e il film ruota attorno al mistero della verità, senza mai scioglierlo.  Qui la questione dell’identità/verità del soggetto raggiunge una precisa messa a fuoco. La scelta dell’attrice tedesca Sandra Huller, perfetta per la parte (che Justine dice “scritta per lei”); la scrittura a quattro mani con Arthur Harari; una scrittura cresciuta a strati, durante il lockdown, da accese discussioni e riscritture, da prove casalinghe dei personaggi, immaginando come si sarebbero  mossi, come avrebbero parlato; il lavoro con gli attori (che sono anche amici della coppia), chiamati a ‘infilarsi’ nella parte e a discuterne fino a calzarla come un abito su misura…Tutto converge nella messa a fuoco della domanda: ci si può fidare di questa donna, possiamo credere a quello che dice? La figura di Sandra, scrittrice affermata che si fa intervistare, bevendo vino e ridendo, mentre al piano di sopra il marito frustrato spara musica a tutto volume con il furore di chi non riesce a scrivere; madre di un ragazzino ipovedente che se ne va in giro da solo col suo cane nella neve, senza che lei gli corra dietro;  donna che si prende i suoi spazi, non indulge nei sensi di colpa, né assume ruoli protettivi, consolatori, apologetici, rassicuranti…è inevitabilmente, direi quasi ‘visceralmente’, un’indagata sospetta. Non a caso il pubblico all’uscita del film si divide tra chi crede nella sua innocenza e chi resta convinto della sua colpevolezza. L’uomo precipitato dal balcone era un uomo depresso, fragile, che accusava la moglie di tutte le sue difficoltà. Dalla deposizione del figlio (una scena struggente per la misura di tensione e capacità di contenimento dimostrate dal giovanissimo attore) veniamo a sapere di quanto fosse ossessionato dall’idea della morte. Eppure, l’ipotesi del suicidio viene spietatamente confutata dall’accusa, mentre i sospetti si addensano contro di lei, donna poco accudente, capace di mantenere dentro di sé una distanza, uno spazio bianco (il riflesso della neve ben riflette un’attitudine mentale raramente apprezzata dal senso comune), dove resta -per tutti- irraggiungibile. Quanto costa a un individuo messo sotto accusa, in un tribunale ma anche nella vita privata, conservare il diritto, la dignità, la responsabilità di non cedere questa particella di spazio di sé? Questa scomodissima postazione da cui osservare, testimoniare la vita non è forse un traguardo di libertà e di saggezza, un bene prezioso e anche un bene comune? Comune perché chi non cede questo pezzetto di spazio alla visione data, già lì, è anche capace di dare all’altro, agli altri, il diritto a uno spazio privato, a un punto di vista originale.  Durante il processo Sandra dirà alla corte: “Secondo la vostra logica, tutti i problemi di Samuel sono colpa mia”. La logica che Sandra mette in discussione è una logica binaria, che procede per coppie di contrari che si corrispondono e si escludono a vicenda, una ‘falsa’ logica che non indaga la complessità, ma la chiude e la banalizza. Sandra, che a un punto critico del processo, quasi senza accorgersene, passa dal francese all’inglese senza perdere il focus del suo ragionamento, come se le diverse lingue non fossero che ‘mezzi’ approssimativi per dire una verità tutta da costruire,  incarna alla perfezione un fantasma di estraneità, un fantasma di differenza: un fantasma che infesta (haunts) non soltanto la psiche dei singoli individui ma tutta la nostra cultura, segnata dal rimosso di una sapienza femminile libera di godere e di dire. Credo che la sfida posta alle nostre coscienze contemporanee dal rimosso che bussa, con i sintomi di una civiltà borderline, così ben definiti da Elena Ferrante come “smarginatura”, e da Green come “follia privata”, sia di aprire quanto possibile nuove strade percorribili al suo ritorno. Ossessionate, divoranti, divorate e scomode, le eroine di Triet. Ma sempre intelligenti e non allineate, sfidano il pensiero comune, aprono, scardinano, ribaltano, provocano squilibrio, spostamento di sguardi, movimento. Ci piace questo aspetto, e ci piace sapere che questi personaggi non sono usciti in sordina, camminando in punta di piedi, dalla mente dell’autrice, ma con grande scalpore, lunghe, accese discussioni, e scambi di scritture, lettere, e-mail, messaggi, tra Justine e il suo compagno, nella fase della sceneggiatura.  E poi ancora con gli attori, che vengono inclusi con i loro nomi reali a far parte di questa misteriosa sostanza transizionale che è l’opera in corso di realizzazione, dove l’idea prende corpo, un corpo collettivo che fa proprie, e incarna, le parole del testo. Credo che ci piaccia vedere ritratta la non pacificazione della donna, l’aspirazione alla psico-sessualità ‘al femminile’, pulsione/passione inseparabili e mai del tutto sublimabili, così da sollevare la domanda: che cosa costa essere liberi? Che cosa costa essere coraggiosi? Che cosa costa avere ambizione?  

 

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