Cinema e Amori
Il personaggio
Noto una signora dai capelli bianchi che cammina verso di me. La strada è sconnessa. La signora ha lo sguardo basso e l’andatura incerta, forse per non perdere l’equilibrio o slogarsi una caviglia per una buca nel terreno ma, un attimo prima di incrociarci, la donna alza lo sguardo verso di me. Io resto gelato, o meglio, per la sorpresa e la violenta emozione che quello sguardo mi ha procurato cerco di restare in me e cammino perdendola come se niente fosse. “Sei tu?”, mi chiedo.
Quella donna è mia madre. Più precisamente, in quello sguardo, in quell’andatura incerta e senile c’era mia madre. Lei è scomparsa da qualche anno. E negli ultimi tempi, con mio grande rammarico il nostro rapporto è stato tormentato dal suo invecchiare male e dalla mia insofferenza per tante cose uscite fuori col tempo.
Sono sul set di una miniserie che sto girando per la Rai, Morbo K. La storia di un medico dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma, che salvò centinaia di ebrei ricoverandoli in un padiglione dell’ospedale, prima del rastrellamento nel ghetto, inventandosi una malattia che non esisteva, il Morbo K, appunto. La donna che ho incrociato è una delle tante comparse ebree che ogni giorno affollano il set. Sto ricostruendo una storia che ha dell’incredibile. E per farlo, come sempre, mi affido a una buona sceneggiatura, a una troupe tecnico/artistica formidabile, a un’esperienza crescente, ma soprattutto all’istinto, a un trenta per cento di situazioni create ad arte e lasciate apparentemente al caso che mi connettono alla parte più inconscia dell’artista e della persona. Alla parte più profonda del mio IO. Solo in questo modo, attraversando il caos, sono capace di provare e quindi restituire attraverso quel che arriva sullo schermo, le emozioni, che sono per quanto mi riguarda lo strumento di comunicazione più efficace per accompagnare lo spettatore in un viaggio alla scoperta di qualcosa che non si conosce.
E così, lo sguardo di quella donna ha perforato il mio animo che sul set è privo di protezione, aperto a qualsiasi suggestione. Ha risvegliato un dolore profondo, messo a tacere e con il quale temevo di dover fare i conti. Nello stesso tempo, questo dolore ne ha portato un altro. Le comparse che stanno lavorando con me sono state scelte con cura. Perfette, credibili, e in quel momento, guardandole ferme in attesa di girare la prossima scena, faccio un salto indietro nel tempo. Sono a Roma, nel 1943, e non ho più la distanza che finora mi ha separato da una fusione totale con la storia che sto cercando di mettere in scena nel migliore dei modi. Infatti, mezz’ora dopo, filmo una delle scene più emozionanti che mi sia mai capitato di realizzare. È ambientata la notte prima che gli ebrei rastrellati siano caricati sul treno che li porterà ad Auschwitz:
INTERNO PALAZZO SALVIATI. Notte. Nella semioscurità le sagome dei corpi ammassati gli uni sugli altri. Il bagliore di qualche sigaretta di chi non riesce a dormire, DEI LAMENTI SOMMESSI. Ester e Ugo sono distesi abbracciati a ridosso di una parete, seduti sul pavimento. Lui dorme lei ha gli occhi spalancati. Poco più in là Giacomo si è disteso su di una panca, mentre le sue due donne dormono sedute l’una accanto all’altra. Anche nonno Mosè è sveglio. Lo scialle della preghiera sulle spalle e la kippah sul capo, oscilla lento avanti e indietro, mentre le sue labbra MORMORANO LE ANTICHE PREGHIERE… che si tramutano in un canto. UNA VOCE FEMMINILE INTONA UN CANTO YIDDISH che introduce la sequenza musicale.
Giro la scena con la musica. Non vola una foglia. Tutta la troupe in religioso silenzio opera al meglio, e bastano due ciak per finirla. Ognuno di noi ha la sensazione di aver fatto qualcosa di importante. Hanno tutti le lacrime agli occhi. Con una scusa vado in bagno. E là, finalmente solo, travolto da un sentimento d’amore e riconoscenza, piango.
Molto tempo prima sono in macchina, nel traffico. Mi sono trasferito da poco a Roma, fresco di laurea in architettura, con l’obiettivo di diventare regista. Piove, mi fermo al semaforo perché è scattato il rosso. Sulla mia destra si è affiancata una macchina all’interno della quale una donna piange disperatamente. È una scena sconvolgente. Mi chiedo il perché di quel pianto. È stata abbandonata da qualcuno? Ha perso un parente? Il lavoro? Ha scoperto di avere una malattia?... Mentre ipnotizzato guardo questa signora che si dispera, il semaforo diventa verde. Sono costretto a ingranare la marcia e a partire e così questa donna scompare nel traffico lasciandomi per qualche giorno un dolore di cui non conosco l’origine. Un anno dopo, un’attrice appena conosciuta, mi fa leggere un raccontino di una pagina che parla di una donna affacciata alla finestra che vede un uomo piangere. Quel pianto la contagia e si trasmette via via a diverse persone che assistono a quella scena. Sembra surreale, in realtà resto fulminato e ripenso subito all’emozione violenta provata qualche tempo prima in macchina davanti a un semaforo rosso. Decido che questo sarà il mio primo cortometraggio e, con l’incoscienza tipica di chi è alla sua opera prima, metto in piedi una troupe improvvisata e in un giorno giro tutte le scene che mi servono per montare il cortometraggio. Non sto qui a raccontare come sono riuscito a realizzarlo perché questo è un altro film, ma quando lo vedo finito, mi sembra subito un qualcosa di mai visto, di molto strano. È tutto in bianco e nero, le scene sono in ralenty, e prive di dialoghi. C’è solo una musica decisamente straniante. Mi chiedo, rispetto a tutti i cortometraggi visti fino a quel momento con una struttura classica e il colpo di scena finale, a chi mai potrebbe piacere quella cosa strana che ho fatto. E invece, con mia enorme sorpresa, il piccolo film viene selezionato in CONCORSO alla mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Non solo, dopo Venezia il corto è invitato in più di cento festival molti dei quali internazionali. Una mattina scendendo a fare colazione in un albergo di Clermont-Ferrand, dove Quel Giorno, così si chiama il corto, è stato invitato, vedo che in un tavolo accanto al mio una decina di persone stanno discutendo animatamente di qualcosa. Capisco subito che litigano sul mio film. C’è chi lo attacca dicendo che non è quello il modo di fare un cortometraggio, e chi lo esalta accusando l’altro di non aver capito nulla. Io mi godo la scena indisturbato perché nessuno sa chi sono. Ma soprattutto quello che vedo e che sento, mi fa CAPIRE QUALCOSA DI MOLTO PRECISO. Ho la sensazione di aver realizzato un film che, senza filtri e senza spiegare molto, parla all’inconscio dello spettatore. E a quel punto mi rendo conto che non è importante se quella reazione è positiva o negativa, ma comprendo l’importanza di stimolare una reazione emotiva che niente ha a che fare con la logica costruzione di una più classica e chiara struttura drammaturgica.
Tra la serie di cui racconto all’inizio, che è l’ultimo lavoro fatto, e il mio primo cortometraggio, sono passati parecchi anni, ma non è mai cambiata la predisposizione a lavorare in questo modo, a usare cioè, strumenti che vincono la logica, la scardinano addirittura, per tirare fuori sentimenti a volte nascosti nel profondo dell’anima. È un atteggiamento spericolato che mi porta a lanciarmi senza paracadute alla scoperta di storie, emozioni, sentimenti, e inattese rivelazioni.
Il mio primo lungometraggio, Pater Familias, girato nella periferia napoletana è stato teatro di una storia molto violenta. Giovani ragazzi privi di un sostegno familiare adeguato reagiscono a questa mancanza di cura e soprattutto di AMORE, perpetrando senza rimedio azioni distruttive verso sé e gli altri. Per fare Pater Familias ho scelto molti attori non professionisti alcuni dei quali protagonisti nella vita reale delle storie raccontate nel film. Anche qui non ci sono stati filtri e in molti casi l’impatto dello spettatore è risultato piuttosto traumatico. Sia chiaro, in me non c’era e non c’è nessuna voglia di scioccare, ma solo quella di restituire senza ipocrisia alcune dinamiche profonde e misteriose dell’animo umano, accompagnando chi vede il film in un viaggio alla fine del quale c’è sempre una luce. Racconto queste cose per spiegare come alcune scene viste o vissute nella vita reale e impresse per sempre nella mia memoria, perché rivelatrici di qualcosa talmente profonda da essere irraccontabile, sono diventate un motore di ricerca potente che mi ha portato a trovare, anche in storie proposte da altri, delle occasioni per approfondire e sviluppare tematiche, immagini e meccanismi che navigavano liberi nell’inconscio in attesa di essere elaborati.
In Svegliami a Mezzanotte, film documentario realizzato qualche anno fa e tratto dall’omonimo libro di Fuani Marino, che racconta la storia di un tentato suicidio e la successiva rinascita della protagonista, ho capito solo dopo aver finito il film che il tema principale della storia era l’AMORE. Un amore negato da un padre anaffettivo scomparso nei duri anni della costruzione del sentimento nell’adolescenza, che si trasforma in una perdita di senso generale e che, con la prima maternità, precipita e sfocia nel più autolesionistico degli atti. Per miracolo, la caduta suicida non diventa morte ma liberazione, rinascita e possibilità di ricevere e dare amore nella nuova vita. E proprio grazie a questa scoperta, ho capito che, in tutti i film che ho realizzato c’è sempre un meccanismo legato all’amore, declinato nelle sue varie forme, che diventa canale di conoscenza diverso da quello della ragione e che, proprio per questo motivo, non deve dimostrare tutto o spiegare ogni cosa. Un’immagine potente apparentemente priva di senso, l’incrocio di due scene solo in superficie non legate tra loro, anche una sola parola pronunciata ad arte da un attore, apriranno dentro di noi emozioni che scaveranno nel tempo che non esiste e ci porteranno in contatto con la parte più profonda ed empatica della nostra anima.
*Francesco Patierno, regista e sceneggiatore. Il suo cortometraggio d’esordio, Quel Giorno (1996), è stato presentato alla 53 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Nel 2002 ha diretto il suo primo lungometraggio, Pater Familias, selezionato nella sezione Panorama della Berlinale. Tra i suoi lavori successivi, Il mattino ha l’Oro in bocca (2008), Cose dell’altro mondo (2011), La gente che sta bene (2014) e il documentario Naples 44 (2016). Nel 2022 ha diretto il docufilm Svegliami a Mezzanotte, tratto dal romanzo autobiografico di Fuani Marino, in cui affronta il delicato tema del suicidio e della salute mentale con un linguaggio visivo intenso e coinvolgente. Recentemente ha diretto Improvvisamente Natale (2022) e il suo sequel Improvvisamente a Natale mi sposo (2023).
Vedi tutto il numero