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Cinema e guerra

L'altro film

La guerra dell’IPM

I ragazzi di ‘Mare Fuori’

Barbara Massimilla

Mare fuori è una serie televisiva italiana pluripremiata, prodotta dal 2020 da Rai Fiction e Picomedia. Finora si sono susseguite tre stagioni, la quarta è attualmente in preparazione, se ne prevede l’uscita nel 2024. La regia è stata affidata a Carmine Elia, Milena Cocozza e infine a Ivan Silvestrini.

La bellissima e travolgente colonna sonora è firmata da Stefano Lentini. L’ideatrice Cristiana Farina ha tratto l’ispirazione da un seminario tenuto nel carcere minorile di Nisida, in quell’occasione rimase colpita da come i ragazzi apparivano diversi dal suo immaginario, pur consapevole che chi è molto giovane va di solito in prigione per delitti gravi, le sembravano come dei bambini, bisognosi di riconoscimento e approvazione da parte degli adulti, suscitandole una tenerezza infinita. L’età dell’adolescenza è una fase fondamentale dello sviluppo, improntata a comprendere quale sia il proprio posto nel mondo – orientata, se tutto procede per il verso giusto – a mettere le basi di una futura positiva progettualità. Le variabili che possono far fallire questi tentativi di crescita sono prevalentemente ambientali, se gli adulti di riferimento sono sufficientemente adeguati, o diversamente se sono assenti, oppure se essi stessi sono implicati in condotte devianti e criminali, anche per i loro figli compiere un reato diventerebbe un fatto naturale. L’autrice della serie dunque desiderava sensibilizzare lo spettatore verso le loro storie estreme, mettere un faro su una realtà spesso negata dagli adulti perché troppo scomoda nel dover rappresentare l’immagine di una società civile. Le carceri minorili sono luoghi dimenticati, basti pensare che a Napoli l’IPM ha un teatro all’interno donato da Edoardo De Filippo, ma a causa di infiltrazioni d’acqua non sarebbe più agibile da anni. Una opportunità straordinaria di riabilitazione per i ragazzi in carcere che va perduta per mancanza di fondi. E’ noto il valore delle rappresentazioni teatrali nei luoghi di detenzione, sia per gli adulti che in ambito minorile, attraverso la finzione narrativa possono essere introiettate nuove forme del pensare e del sentire. Con la recitazione si può essere attraversati da emozioni che hanno un effetto catartico e diventano oggetto di riflessione e condivisione in una cornice, quella dell’IPM, che dovrebbe sempre avere, nelle sue aree d’intervento, come scopo principale quello di riabilitare ed educare giovani vite al riscatto di valori e di principi etici.

 

 

Incuria, abbandono, un ascolto distratto e svalutante da parte della struttura carceraria, la mancanza di personale altamente specializzato, possono solo incrementare il disagio esistenziale e psicologico di questa gioventù che avrebbe il pieno diritto di avere una seconda possibilità.

Perché proprio Napoli? Il carcere in Mare fuori sarebbe situato in una sorta di confine sospeso tra mare e cielo. Guardando dall’alto il celebre golfo, emerge una serpeggiante costruzione rossa, questa ritaglia una ‘terra di mezzo’ che si addentra nel mare.

Da quel punto la visuale si apre a scorci di struggente bellezza, dietro le sbarre, si può morire di nostalgia contemplando la maestosità del Vesuvio, gli azzurri delle onde, e di notte le luci distese a tappeto che disegnano la forma sinuosa della città, simile nella sua maestosità a un teatro ellenico, sinuosa come vorrebbe la leggenda della sirena Partenope, ovvero che il suo corpo si assimili alla “morfologia del paesaggio, riconoscendo il capo nella collina di Capodimonte, il corpo adagiato lungo tutto l’arco del golfo, e il piede affiorante dal mare nella collina di Posillipo”. Partenope con le sue due sorelle, Ligea e Leucoside, viveva a largo della penisola sorrentina, verosimilmente sugli scogli di Li Galli antistanti a Positano. Sarà dopo l’umiliante fallimento dell’incontro con Ulisse – che resistette al fascino del loro canto – che le Sirene si suicidarono, lanciandosi dall’alto di una rupe, e il corpo di Partenope, trascinato dalle onde, restò incagliato tra gli scogli del golfo e di quella che sarà la futura Napoli (Rivista Psicologia Analitica, L’anima dei luoghi, a cura di B.Massimilla, “Itinerari della psiche” di M.Mastroianni e P.Russo). Un racconto mitologico tragico e sublime sulle origini di Napoli che sembra riflettersi nei destini di morte di alcuni giovani rinchiusi in quella ‘terra di mezzo’, simile dall’alto all’ala spezzata di un gabbiano.

 

 

Tra tanta bellezza il carcere minorile assume per lo spettatore la valenza di una ‘ferita’ a tratti insopportabile, perché ad essere imprigionati sono degli adolescenti, sì colpevoli di omicidi, di furti, di incastri fatali, ma in una età della vita ancora molto inconsapevole, che si immagina non debba mai scontare tanta pena e dolore. Tranne il caso particolare di Naditza, la bella Rom che ruba per sfuggire al destino di un matrimonio combinato da parte dei suoi genitori, cercando nella reclusione una via di libertà, diversamente tutti gli altri scontano il carcere perché sono stati travolti da eventi tragici.

Sono tutti adolescenti, portatori di una costitutiva fragilità identitaria, spiccano per il loro modo viscerale di interagire, nel racconto che man mano si snoda riescono attraverso i loro eccessi e paradossi a coinvolgere emotivamente lo spettatore, suscitare sentimenti, affetti, se non in molti casi una sorta di comprensione per le cause che li hanno spinti ad agiti irreparabili. Sembrerebbe che l’audience più elevato della serie riguardi un pubblico molto giovane, nel nostro paese è stata la serie più seguita nel corso dell’anno anche dagli adulti, ma in particolare i giovani riconoscerebbero nelle numerose storie che si intrecciano, sentimenti e relazioni nei quali rispecchiarsi. Presumibilmente più che nelle azioni violente, quasi sempre estreme nel corso della narrazione, interconnesse alla condanna inferta, si direbbe invece che possibili vissuti proiettivi dei giovani spettatori possano riguardare i modi di percepire la propria solitudine difronte a un futuro incerto, come pure il desiderio diffuso di essere amati e sentirsi amati in modo incondizionato.

 

Il film narra la difficile età della vita nella quale la ricerca di un proprio linguaggio è fortemente influenzata dall’ambiente: in quella fase si potrebbe diventare conformisti, plasmati dall’esterno, pronti a compiacere; come arrivare ad aderire a filiazioni fusionali, a patti indissolubili; oppure ci si scontrerebbe di continuo con il linguaggio degli adulti contro il quale ci si opporrebbe tenacemente fino a soccombere o ad autogenerarsi.

Mare fuori ha l’intuizione di svincolare il più possibile ogni singolo volto della serie dal mondo degli adulti, vuole intenzionalmente accendere un faro sui profili di questi adolescenti e dare voce alla loro personalità, ne risulta un collage di identità in crescita e in movimento. A ciascun protagonista viene riconosciuta la propria specificità, nei termini di sofferenza, di causalità, di destino e di futuro.

 

Il focus non è sugli adulti in senso stretto anche se a questi vengono imputate le responsabilità degli avvenimenti. L’universo dei grandi entra in scena tragicamente in senso transgenerazionale, si tratterebbe dei crimini e delle colpe non elaborate dei predecessori, in particolare dei genitori coinvolti in prima linea nella camorra, ma non solo. La guerra tra due famiglie camorriste si riversa sui rispettivi figli. Si tratta della madre di Carmine Di Salvo (lo straordinario Massimiliano Caiazzo che interpreta il personaggio chiave della serie) e del padre di Rosa Ricci (la giovane e promettente Maria Esposito), interpretati dall’attrice Pia Lanciotti e da Raiz, nome d’arte di Gennaro Della Volpe, la voce degli Almamegretta.

Molti genitori sono cinici e problematici come il padre del cantautore Cardiotrap, ragazzo dall’aria pulita, finito in carcere per difendere la propria madre dal padre violento, coinvolto inconsapevolmente dallo stesso padre in una azione criminale dalla quale riuscirà a sottrarsi, per poi ricadere in un’altra involontaria tragedia in difesa di una coetanea fragile.

Oltre lo sfondo camorristico avvengono drammi di ordinaria follia in una versione più privata tra le mura domestiche, come le cause determinanti il futuro di Viola che sviluppa una psicosi, abusata fin da piccola dal padre sotto gli occhi indifferenti della madre. Viola è un personaggio segnato da innumerevoli ferite, agisce inconsciamente tra le mura dell’IPM l’odio di cui è stata oggetto fin dall’infanzia.

Tutti i ragazzi sono praticamente protagonisti – con punte di spicco per Carmine e Rosa, Filippo e Naditza – le storie esprimono tutte intrecci di vite vissute in modo estremo dalle quali emerge sempre un sottotesto di comprensione, di riscatto, d’innocenza.

Lo stile della messa in narrazione di ciascun ritratto adolescenziale dà voce a racconti che fungono da ‘testimonianza’ di esempi familiari sempre disfunzionali, che suscitano per la loro tragicità una viva partecipazione. Lo sguardo dello spettatore nel seguire ogni narrazione s’immerge magnetizzato tra slow motion e time-lapse della camera, punteggiature temporali di ogni racconto, che scandiscono l’arco di ogni storia. La sceneggiatura analizza la genesi dei fatti, un fil rouge di eventi si ricongiunge infine a una rete narrativa più estesa, uno sguardo di insieme dove tutti i giovani protagonisti sono intrecciati e uniti da legami profondi, per le loro personalità e la capacità di amare e di odiare, di tessere tra loro relazioni significative.

Sempre riguardo al mondo degli adulti una nota di merito va riconosciuta ai personaggi della direttrice del carcere e del comandante (gli eccezionali Carolina Crescentini e Carmine Recano). Rappresentano una sorta di genitori adottivi per i ragazzi, partecipano alle loro storie con affettività, in alcuni frangenti drammatici li salvano dalla morte (il comandante fa da scudo con il suo corpo ad Edoardo crivellato di colpi davanti al portone del carcere), si offrono di allevare i loro figli (la direttrice prende in affido la neonata Futura, figlia di Carmine Di Salvo). Tentano come possono all’interno del loro ruolo di riparare i danni compiuti dai genitori biologici verso i propri figli… sono umani e continuamente tesi a una comprensione psicologica delle dinamiche che avvengono tra le mura del carcere.

 

Il personaggio di Carmine in Mare fuori è centrale, rappresenta la punta di diamante dell’opposizione più strenua contro il ‘sistema’ di corruzione e violenza del mondo degli adulti; combatte al tempo stesso i giovani successori della camorra, ma senza armi, in modo pacifico attraverso il suo esempio. Carmine travolto da un destino tragico, ha il soprannome che gli viene dato dalla famiglia e dal contesto camorristico: piecuro, ossia buono e sensibile, votato ad essere una figura sacrificale, avulso dalle logiche distruttive e vendicative del ‘sistema’. Ma il modello pacifista di Carmine è contagioso, come spesso avviene nei ‘branchi’ adolescenziali, chi diventa leader trascina con sé anche gli altri. La citazione Shakespeariana di Giulietta e Romeo si riattualizza con lo sbocciare del sentimento travolgente tra Carmine e Rosa Ricci, figlia del boss della banda camorristica rivale. La trasformazione di Rosa è stupefacente, da longa manus del padre, si libera dalla cecità dell’odio, riconoscendo nella linea di Carmine autenticità e purezza, sentimenti che in fondo appartengono anche a lei.  

Bisognerà vedere nella quarta serie che fine farà questo amore, se avrà la forza di fondare un nuovo modo di stare al mondo, oltre l’odio e l’ineludibile trasmissione del male dei sistemi malavitosi.

Ciò che fa sperare è la capacità affettiva che questi ragazzi rivelano quando riescono ad aiutarsi tra di loro liberandosi dai condizionamenti negativi ai quali il mondo perverso degli adulti li predestina, per ritrovare le ragioni dell’amore e del bene, della ricerca di senso nelle loro giovani esistenze.

 

 

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