Cinema e guerra
Il personaggio
“Non sono mai stato un artista: mi ha interessato solo dire delle cose nella forma migliore in un’epoca in cui non erano ancora state dette” Luciano Salce
L’uomo dalla bocca storta è il titolo del documentario che Emanuele Salce ha girato per ricordare il padre nel centenario della sua nascita (1922-2022) e nel quale racconta la terribile esperienza che quest’ultimo aveva vissuto durante i due anni di deportazione (1943-1945) in Germania come prigioniero di guerra. Un serio incidente automobilistico, avvenuto mentre il padre lo accompagnava in collegio, aveva costretto il giovane Luciano all’impianto di una protesi mascellare d’oro, quella che gli verrà poi “scippata dai nazisti”, commenta Emanuele, determinando una asimmetria del viso, la bocca storta. Inoltre ricorda che il padre nei suoi diari aveva riassunto il periodo di deportazione in “due anni difficili”, come a sottolineare una tendenza a liquidare in modo lapidario gli urti dolorosi della vita.
Uno strappo violento e sadico, che potrebbe avere riaperto nell’artista il vuoto doloroso dell’assenza della madre, morta nel darlo alla luce e la presenza inquietante di un padre poco protettivo verso il figlio (lo ha portato a sbattere!), e “rifiutante” ritenendolo responsabile della perdita della moglie, e che ha messo allo scoperto un dolore intrasformabile, quasi “costituzionale”. Forse, proprio da quel dolore nasce quel modo distaccato di guardare il mondo e il bisogno di ridere di tutto e di tutti che diverrà la cifra peculiare di Luciano Salce, ricorrendo a una ironia a volte cinica e spietata, usata come una sorta di “protesi”, nel tentativo di riempire il vuoto e allontanare il pianto. “La bocca storta” sembra raccontare la storia di un uomo a metà tra il riso e il pianto, tra il sarcasmo e la malinconia, come il suo cinema, del resto, pieno di sfumature e spesso in bilico tra farsa e commento sociale, amarezza e satira, tragedia e commedia.
Il Federale di Luciano Salce, 1951
Con l’inaugurazione al Museo Etrusco di Villa Giulia della mostra Luciano Salce, l’ironia è una cosa seria (06 - 27 ottobre 2022) Roma ha celebrato il centenario della nascita dell’artista, uno dei più eclettici e versatili del mondo dello spettacolo italiano, sebbene molto spesso sottovalutato dalla critica contemporanea. Il suo percorso artistico è stato straordinariamente ricco e longevo: pioniere del cabaret con la formazione de I Gobbi nei primi anni cinquanta, ironico conduttore del sabato sera televisivo, quello in bianco e nero di Studio Uno, voce di programmi radiofonici scatenati e caustici (I malalingua, Blackout), autore e regista di commedie teatrali, persino paroliere negli anni ‘60 per Luigi Tenco e Gianni Morandi, tra gli altri. Sempre sotto il segno dell’ironia e dell’autoironia.
Tra il 1961 e il 1963, con la collaborazione degli sceneggiatori Castellano e Pipolo, Salce firma la regia di tre film, titoli di culto nella storia del cinema di commedia, Il federale, La voglia matta e Le ore dell’amore. Capace di comprendere e interpretare la fase di passaggio dal cosiddetto “realismo rosa” alla “commedia all’italiana”, Salce ha accompagnato con le sue opere l’evoluzione del cinema popolare italiano fino agli anni ottanta. Irriverente, sperimentatore poliedrico, l’autore ha raccontato l’Italia del secondo dopoguerra disegnando una serie di personaggi e caratteri ancora oggi indimenticabili, dal Federale a Fantozzi, passando per tanti altri, specchio di un paese in profonda trasformazione e pieno di contraddizioni, nella stagione del “miracolo economico”.
Padroneggiando abilmente generi e temi tanto diversi senza cadere nella banalità né offrire comodi schemi di catalogazione, sempre con sguardo ironico , sia esso amaro o dissacrante, tanto da guadagnarsi così l’epiteto di “qualunquista” da larga parte della critica nostrana, Salce racconta pregi e difetti della società italiana contemporanea; a volte i suoi sono successi commerciali come Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi, altre volte realizza film d’autore che lasciano il pubblico e anche la critica piuttosto tiepidi o addirittura indifferenti, come Colpo di Stato, un film di satira politica in cui il Partito Comunista vince le elezioni. Tra i tratti tipici della filmografia di Salce c’è spesso una satira farsesca, una sferzata graffiante volte a svelare l’assurdità di alcuni schemi mentali e regole sociali, con effetti comici mai del tutto scevri da una vena malinconica. Nonostante i suoi soggetti siano stati interpretati da alcuni formidabili attori dell’epoca, come Tognazzi, Sordi, Vitti e Gassman, il regista faticò ad incontrare il favore del pubblico e divenne popolare solo mettendo in scena Fantozzi (1975), che nato con la collaborazione di Paolo Villaggio ha dato luogo alla serie di commedie grottesche dedicate al ragioniere più famoso d’Italia.
La voglia matta di Luciano Salce, 1962
La voglia matta, pellicola da poco restaurata dal Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale, in collaborazione con Compass Film e presentata all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, può essere considerato un film paradigmatico dello scarso successo avuto dal regista da parte della critica. Commedia amara, che tratteggia il primo sorgere del malcontento e della disillusione successiva agli anni ruggenti del miracolo economico il film fu tacciato allora di “immoralità” ed è oggi pressoché sconosciuto al grande pubblico. Tratto dal racconto Una ragazza di nome Francesca di Enrico La Stella, con la sceneggiatura di Castellano e Pippolo e le musiche di Morricone, La voglia matta è un film attraversato da diverse influenze letterarie e cinematografiche, come il romanzo Lolita di Nabokov e La dolce vita di Fellini.
Un milanese quarantenne, ingegnere di successo (Ugo Tognazzi) in viaggio per andare a trovare il figlio, in collegio, incontra un gruppo di ragazzi e s’invaghisce della sedicenne Francesca, una maliziosa Catherine Spaak, sottoponendosi ad ogni angheria e sopruso per ingraziarsi i favori dell’amata sino a cadere spesso nel ridicolo e nella caricatura.
Colpisce, rivedendo il film oggi, come il regista abbia anticipato il vuoto esistenziale di una borghesia annoiata, sazia del proprio benessere e fondamentalmente priva di valori. Ed è la stessa figura del protagonista, protesa al disperato inseguimento della gioventù perduta a risultare di straordinaria attualità.
La vicenda si svolge tutta in un giorno e in una notte in una casa sulla spiaggia nelle vicinanze di Roma, dove i giovani festeggiano l’ultimo week-end dell’estate. e dove l’ingegnere milanese li segue per mettere in atto i suoi goffi tentativi di corteggiamento. Siamo nel pieno del boom economico; è in atto la trasformazione definitiva dell’Italia da paese rurale a nazione industriale. Salce è uno dei primi autori che si sofferma ad analizzare la generazione dei giovani degli anni ‘60, sottolineandone l’edonismo e l’egoismo, oltre che un rifiuto preconcetto per ogni forma di cultura (“Mussolini chi, il padre del pianista?”). Inoltre utilizza alcuni espedienti stilistici per organizzare la narrazione: il flusso interiore del protagonista viene descritto attraverso il dialogo con un alter ego che svolge la funzione di coscienza morale, per lo più inascoltata, e i flash back, in cui rappresenta i sogni del protagonista.
Ugo Tognazzi rende il suo personaggio irresistibile: l’ingegnere rampante e sicuro di sé passa dalla prosopopea esibita nell’incipit durante la rappresentazione del Giulio Cesare al teatro romano di Ostia Antica (“la donna deve essere messa in orizzontale”), alla totale umiliazione in riva al lungomare di Sabaudia. C’è molto cinismo in questi giovani che ordiscono una serie di scherzi impietosi ai danni dell’ignaro ingegnere tutto preso dai suoi goffi tentativi di corteggiamento.
L’atmosfera goliardica e festaiola lentamente s’incupisce, le luci dell’estate fanno posto alle ombre dell’autunno; un cielo grigio e le canzoni di Gino Paoli accompagnano l’amara malinconia che permea la narrazione filmica.
Dietro la maschera comica, il protagonista fa trasparire bagliori di un vissuto caratterizzato dal rimorso e dal senso di colpa (l’assassinio di un soldato inglese nella campagna d’Africa, la separazione dalla moglie, il figlio depositato in collegio), che si riflettono nell’insicurezza sul proprio corpo di fronte alla prestanza fisica dei giovanotti che lo circondano, su tutti il rivale in amore Piero (Gianni Garko). D’altro canto, anche Catherine Spaak, che si muove come una Lolita kubrickiana, comunica un senso di vuoto e di spaesamento collegato dalla rottura dei rapporti con le figure autorevoli e significative affettivamente (i genitori, lo spasimante ricco). Sembra di cogliere in alcuni tratti dei due protagonisti elementi autobiografici del regista, un padre immaturo e una madre giovane che abbandona.
Seconda collaborazione tra Luciano Salce e Ugo Tognazzi, dopo Il federale, La voglia matta è una commedia di costume brillante, estremamente verosimile e sfaccettata, soprattutto nella vivace descrizione dei due caratteri principali. Salce, senza facili bozzettismi o triti luoghi comuni, racconta un confronto generazionale in cui se da un lato l’adulto si segnala per la sua vanitosa e sterile presunzione, collezionando figuracce a iosa pur di dimostrare invano la sua millantata giovinezza e la sua perenne vitalità, dall’altro anche le nuove generazioni, nella legittima e comprensibile superficialità e goliardia dell’età, appaiono vacue e inconsistenti. Il riso si stempera, così, nell’amarezza, come nella migliore tradizione della commedia all’italiana.
Ancora oggi attuale, soprattutto di questi tempi, per l’impietosa lucidità con cui mostra il disagio, l’imbarazzo e la patetica goffaggine di un quarantenne che fatica ad accettare l’inesorabile trascorrere dell’età e che a contatto con dei ragazzi svegli e spregiudicati vorrebbe comportarsi come loro, divenendo però solo il penoso oggetto della loro sadica e facile ironia.
Poliedrico e caustico in ogni sua espressione artistica, Luciano Salce (1922-1989) mostra oggi più che mai la modernità del suo linguaggio capace di riflettere al meglio la cultura italiana del Novecento e di sintetizzare con pochi tratti vizi e virtù della gens italica con sguardo ironico, acutezza satirica ed eleganza espressiva.
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