Il nome di Phil Cohen, psicoterapeuta di attori e sceneggiatori di Hollywod, è venuto alla ribalta a partire dagli anni Ottanta in pubblicazioni sul maccartismo, soprattutto nel best seller di V. Navansky Naming names (New York 1980, 1991, 2033), per molti una sorta di Bibbia, per altri un libro mistificante (N. Rosenthal, Commentary, Sett. 2005). Cohen è stato accusato di aver manipolato i pazienti per costringerli a rivelare il loro passato di comunisti e i nomi dei loro complici. Psicoanalista “selvaggio”, fotografo, aviatore, cavallerizzo, vicesceriffo, insegnante, spia: di lui è stato detto tutto e il contrario di tutto. Tutto tranne le cose più elementari, cose che autori di best seller non dovrebbero farsi sfuggire: data e luogo di nascita, data di morte, nomi dei parenti più prossimi, tappe della carriera. Qualcuna di queste notizie siamo riusciti a conoscerla, con enorme fatica, non avendo accesso in Italia a fonti di informazione che negli Usa sono facili da consultare. Cohen nacque a Butte, Montana, da Jacob Symons Cohen e Ann Greenber il 12 aprile 1912. Sembra una notizia insignificante e invece non lo è. Chiamarsi Symons Cohen a Butte è come chiamarsi Agnelli a Torino. Butte ha importanti miniere di oro, argento e soprattutto rame, ma la vera miniera d’oro, inesauribile erano i Grandi Magazzini Symons, dove c’era letteralmente ogni ben di Dio e dove le ricchissime mogli dei proprietari di miniere trovavano addirittura modelli esclusivi di Parigi che non c’erano neppure a New York o a Chicago. Jack Symons Cohen era uno dei direttori di questo immenso emporio, dove arrivava il meglio dell’Europa. Ricchissimo, al punto di finanziare teatri o comprare miniere, il padre di Philip viveva in una bella casa di 300 mq nella zona residenziale e si poteva permettere di mandare il figlio in università prestigiose. Philip studiò quattro anni medicina a Seattle alla Washington University e si laureò in Psicologia nel 1935, al primo livello accademico statunitense. Poi, per conseguire il dottorato, frequentò per tre anni l’università di Chicago dove insegnava, il grande Franz Alexander, che teneva avveniristici corsi di psicoanalisi all’università e faceva terapie anticonformistiche, delle quali, forse, Philip potrebbe aver avuto esperienza. Il giovane non riuscì a completare i suoi studi e tornò a casa nel 1937.
Dopo un paio d’anni, si iscrisse di nuovo a Seattle, cercando di finire la sua tesi, ma qui la sua vita ebbe una svolta: incontrò all’università la futura moglie, l’irlandese Elizabeth e si iscrisse con lei al Partito Comunista, particolarmente forte in quest’area geografica. Si sposò a Butte il 17 marzo 1940 e cercò invano di completare i suoi studi, facendo il fotografo per mantenersi. Poi decise di abbandonare la militanza politica e la vita da studente, mettendo a frutto quello che aveva imparato a Chicago. Alexander era un pioniere delle “terapie brevi”, molto discusse dalla comunità psicoanalitica internazionale, ma molto utili per affrontare le crisi temporanee e clamorose di personalità istrioniche come gli attori, che non avevano tempo né voglia di impegnarsi in un’analisi classica e smaniavano di andare dallo strizzacervelli perché andava di moda. Philip si trasferì a Los Angeles e aprì uno studio privato come “terapeuta” nel Beverly Hills Building, un celebre centro di attività professionali di Los Angeles. Gli autori di best sellers e i giornalisti che pendono dalle loro labbra spiegano il trasferimento in modo riduttivo, ignorando l’indirizzo dell’ufficio. Secondo loro lo pseudo-dottore (che a onore del vero aveva una laurea in psicologia e non era dunque tanto “pseudo”) avrebbe sfruttato le sue amicizie comuniste e avrebbe goduto la fiducia del partito a cui non apparteneva più: pur essendo ideologicamente contrari alla psicoanalisi, i comunisti del Pacifico si sarebbero fidati di lui, che comunque era un ex-compagno e avrebbero permesso a qualificati membri del partito di curarsi con questa terapia borghese. Una simile insinuazione può anche avere qualcosa di vero, ma non è l’unica spiegazione: ad esempio Sterling Hayden, ricorda di essere stato inviato all’analista dal suo avvocato, Martin Gang, celebre rappresentante di attori e registi di Hollywood, con cui Phil Cohen ebbe stretti rapporti. Questi legami non sono casuali. Il cugino di Philip, William Israel, laureato a sua volta Seattle, fu infatti un noto e brillante avvocato attivo proprio a Beverly Hills, che lo introdusse nel mondo dorato dei clienti dei suoi colleghi. Tra di loro, oltre al già citato Sterling Hayden, ci furono personaggi famosi come l’attore John Garfield (protagonista del Il postino suona sempre due volte), l’attrice Dorothy Colmingmore (la seconda moglie di Kane in Quarto potere), gli sceneggiatori Bernard Gordon e Leo Towsend, il regista Richard Collins. Riservato, timido e silenzioso, ma stimato e benvoluto, il giovane terapeuta non esitava a dare un brandy a un paziente troppo agitato o a partecipare alle nozze di un altro, chiedendo l’onorario che ciascuno poteva permettersi e non disdegnava di parlare coi pazienti di fotografia o equitazione, sport in cui eccelleva essendo nato nella terra dei Sioux. Andò tutto bene fino alla fine degli anni Quaranta, quando avvennero cambiamenti radicali. Il terapeuta si sposò una seconda volta con una donna chiamata Myrtle e cominciò ad avere problemi economici che lo spinsero a ridimensionare la sua vita e a rinunciare a passioni profonde come l’aviazione, vendendo il suo aereo privato. La sua clientela si ridusse drasticamente e fu costretto a cercare nuovi fonti di sopravvivenza. Con l’aiuto delle sue amicizie nel mondo degli avvocati trovò lavori di consulente psicologico delle forze dell’ordine: prima aiutando lo sceriffo di Inyo County, a trecento chilometri dalla sua abitazione; poi collaborando col Dipartimento di Giustizia di Los Angeles nei casi di criminalità comune. Il terapeuta sarebbe stato giudicato poco affidabile da molti personaggi che erano stati presi di mira dalla Commissione per le Attività antiamericane (la “H.U.A.C”) e dai membri che ancora sopravvivevano del partito comunista. Molti dei suoi pazienti avevano finito col confessare le loro colpe alla Commissione e questo non deponeva a favore di Cohen. Si sospettò che fosse un informatore dello FBI e che si comportasse come il suo amico, l’avvocato Gang, che negoziava spesso coi Federali la sorte di molti suoi clienti ex-comunisti, invitandoli a collaborare con la giustizia. I sospetti naturalmente aumentarono quando Philip Cohen cominciò a lavorare stabilmente nel Dipartimento di Giustizia: anche se non si trattava di delitti politici, nel Dipartimento si incontravano agenti dell’FBI, come William Wheeler, che fu più volte implicato nei processi della H.U.A.C., aiutando peraltro spesso gli accusati e comportandosi da moderatore rispetto ai più fanatici. Il terapeuta perse progressivamente tutti i suoi pazienti ed abbandonò la sua professione. Riprese a interessarsi di fotografia e intorno al 1960 si trasferì a Santa Barbara dove trovò lavoro come professore di fotografia nel celebre Brooks Institute. La sua nuova attività durò una ventina d’anni e fu ricca di soddisfazioni: molti dei suoi ex-allievi, divenuti fotografi professionisti e collaboratori di grandi riviste, ricordano ancora oggi il suo spirito aperto e la sua figura carismatica. Morì a Santa Barbara il 23 giugno 1981.
Il documento dell'FBI in cui viene ricordato Ernest Philip Cohen (Archivio dell'FBI n. 100-370750-185 del 9/7/1950).
Che dire di Ernest Philip Cohen? La sua fama è certamente compromessa, ma i suoi detrattori non sono riusciti a trovare nessuna prova della sua presunta attività illecita. L’unica cosa che tutti sbandierano come una certezza è che alcuni suoi pazienti si presentarono davanti ai giudici per confessare. Ma questa è un’arma a doppio taglio perché è vero anche il contrario. Perfino lo stesso Navansky, che ha deformato e manipolato la sua presunta intervista a Cohen per fargli dire quello che voleva, è costretto ad ammettere: «almeno una dozzina dei suoi pazienti collaborarono con la giustizia, ma altri non lo fecero.» (Naming names, p. 139). A parte questo, i suoi ex-pazienti hanno negato recisamente di essere stati condizionati dal terapeuta, che a sua volta ha negato ogni addebito (ivi, pp. 131-138). Ciò è stato confermato anche dai pochi ex-pazienti che hanno sospettato di lui, come Bernard Gordon che non pensa di essere stato manipolato dal suo dottore, ma solo che egli abbia informato la polizia dei suoi movimenti (The Gordon file, Austin 2004, pp. 95-96). Un piccolo aiuto in questa controversia può darcelo un documento dell’FBI che sono riuscito a ritrovare, in mezzo al gran mare di testimonianze desecretate negli Usa grazie al Freedom of Information Act (5 U.S.C. § 552) Amendments of 1996. Esiste una nota del 9 luglio 1950 che ricorda la condanna ad un anno di prigione di John Lawson, il leader degli oppositori della Commissione per le Attività Antiamericane. Nella prima pagina di questo testo si specifica che, a prescindere dalla condanna, due informatori qualificati, ex membri del partito comunista a Hollywood, avevano detto che Lawson era il capo morale dei comunisti di Hollywood e prendeva ordini dal quartier generale del Partito a New York. Nell’elenco degli informatori accluso alla breve nota figura il nome di Ernest Philip Cohen che sarebbe stato interrogato dall’agente Marcus Bright. Bene, direte voi. Ecco la prova della nequizia del terapeuta fasullo! E invece no. Le notizie sono state fornite da undici testimoni, ma solo nove erano informatori abituali, poiché vengono citati col nome in codice, una sigla seguita da un numero. Cohen invece, assieme ad un altro, è ricordato col nome e cognome e indirizzo, come se fosse la prima volta che viene menzionato nei documenti di questo tipo. In altre parole, Cohen non era “un informatore” abituale, ma solo un testimone occasionale, interrogato perché ex-membro del partito comunista. Tutto questo trova conferma in dichiarazioni del terapeuta che ha detto di essere stato interrogato su questi temi proprio da Bright e di avere negato qualsiasi informazione sui suoi pazienti, come prevede il segreto professionale (Naming names, p. 140), ma non a proposito di individui che non erano suoi pazienti e che erano peraltro già noti agli agenti dell’FBI (ivi, p. 141).
Nella speranza che nuove ricerche chiariscano definitivamente la questione, ci preme dire che è veramente strano che il terapeuta venga accusato da pazienti e osservatori di aver manipolato la mente dei suoi pazienti come se fosse uno stregone o un ipnotizzatore. È singolare che giornalisti e perfino presunti studiosi moderni credano a questa visione semplicistica degna dell’epoca della caccia alle streghe e si dimostrino altrettanto paranoici quanto gli agenti del FBI: qualsiasi comportamento individuale del paziente è colpa solo di chi lo ha subdolamente circuito.
È buffo che si pensi una cosa del genere a proposito di Cohen, visto che molti suoi ex-pazienti come Sterling Hayden o Bernard Gordon o Frank Malina lo accusano di essere rimasto troppo silenzioso durante le sedute e di non averli influenzati abbastanza nelle loro scelte di vita. Come ha detto Leo Towsend: «Lo abbiamo incontrato tante volte io e mia moglie al di fuori della terapia…Naturalmente abbiamo parlato del Partito e penso che questo avrebbe potuto essere un argomento su cui esercitare la sua influenza e manipolare le persone. Ma durante le ore di terapia non è stato mai così. Anzi, penso che durante le sedute non mi abbia mai detto un accidente su qualunque cosa. Mi diceva solo: ‘Che cosa ne pensi tu’.» (ivi, p. 138).
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