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Cinema e donne

Arti visive

Nel tutto-mondo … stranieri ovunque

Sofia Albrigo e Barbara Massimilla

Nel panorama attuale del mondo non è più possibile legare l’identità a un'unica radice, ed è necessario entrare nella verità della creolizzazione del mondo, di un’identità che comporta un’apertura all’altro. Soltanto una poetica della Relazione, un Immaginario, ci permetterà di ‘comprendere’ queste fasi e i rapporti tra le situazioni dei popoli nel mondo d’oggi, e ci autorizzerà, forse, a tentare di uscire dalla prigione in cui ci troviamo.

Édouard Glissant

 

Stranieri ovunque – Foreigners everywhere, è il suggestivo titolo della 60 Mostra Internazionale della Biennale 2024 curata dal brasiliano Adriano Pedrosa (direttore del Museu de Arte de São Paulo), non a caso di origine latino-americana, a voler dimostrare la crescente attenzione dell’istituzione verso un sistema sempre più globale dell’arte. Da decenni un comitato di artisti aveva invocato gli organizzatori della Biennale di dare spazio alla celebrazione del movimento naïf, della pittura folk e brut nel campo dell’arte ufficiale, per opporsi a ogni concezione elitaria o subalterna della cultura, per conferire dignità e onore a quei flussi di creatività che erano stati da sempre relegati ed emarginati nelle retroguardie dell’espressione artistica. Per Pedrosa le tracce di questa apertura erano già visibili dall’inizio degli anni Duemila, quando gli artisti contemporanei del Sud del mondo hanno iniziato a viaggiare esponendo in musei e gallerie internazionali. La ricerca artistica del curatore è da sempre stata caratterizzata da studi di tipo etnografico e antropologico, orientati ad analizzare i fenomeni sociali contemporanei a partire dalle loro radici territoriali e storiche.

 

Julien Creuzet / photo by Marco Zorzanello / Courtesy: La Biennale di Venezia

 

Il concept della Mostra riguarda la “decolonizzazione dello sguardo”, dopo secoli di colonialismo si respira nell’arte il bisogno di creare un altro ordine delle cose, di materializzare una dimensione etica capace di intrecciare a tutto raggio reti di persone, reti di cose, reti di simboli nella realtà mondo.

Tematiche universali affrontate dall’intellettuale martinicano Édouard Glissant, al quale nel sottotesto sarebbe dedicata la Biennale per le scelte espositive che l’hanno caratterizzata. Glissant ha intrecciato nella sua ricerca liberamente poesia, prosa e saggistica, trasmettendo a tutta la sua opera una inquietudine generativa e un movimento di erranza. Definito lo scrittore creolo dell’opacità perché non interessato ai progetti di trasparenza, di chiarezza, da lui considerate peculiarità di un lessico occidentale.

Julien Creuzet, artista caraibico, collega idealmente la Martinica alla Francia in un luogo di echi acquatici intrisi di storia. La presentazione del Padiglione francese ha avuto inizio proprio in Martinica davanti alla casa di Édouard Glissant, per indicare quanto la sua visione filosofica di apertura al mondo sia importante per Creuzet. L’esposizione curata da Céline Kopp e Cindy Sissokho risuona poeticamente nel titolo dell’opera, per la scelta delle parole che nella loro opacità riflettono echi di terre che si infrangono le une nelle altre: “Attila cataratta la tua sorgente ai piedi dei pitoni verdi finirà nel grande mare gorgo blu noi ci annegammo nelle lacrime maree della luna”. Parole ibride di senso accompagnano il visitatore mentre si immerge nello spazio, intravedendo forme, ascoltando suoni che le abitano. Una immersione in un intreccio di stimoli sensoriali potenti. Riuscire a distinguere una tarantola nella fitta densità di una foresta tropicale è una ricchezza per lo sguardo dell’artista. Un invito a lasciarsi trasportare. Il movimento è presente fin dalla facciata dove danzano le statue dei continenti, liberate l’una dall’altra. All’interno le correnti sono multiple. “Le storie passate e future dell’Atlantico si intrecciano – sussurrano i due bravi curatori al visitatore – con quelle del Mediterraneo e articolano una moltitudine di miti, alcuni dei quali, come quello di Nettuno, si ritrovano nel Palazzo Ducale. Acque e cascate offuscano la nostra visione. Hanno il potere di rivelare come di rendere invisibili e di ravvivare i nostri sensi, permettendoci di riscoprire memorie collettive. Questi versi sono un invito alla libertà di interpretazione perché molteplici sono i modi di vivere questo progetto. Si presenta come un crocevia, un luogo dove si può incontrare di tutto ma anche per ritrovarsi faccia a faccia con sé stessi”.

 

Archie Moore / photo by Matteo de Mayda / Courtesy: La Biennale di Venezia

 

I Leoni d’oro della Biennale 2024 sono andati all’Australia con il collettivo Maori Mataaho e ad Archie Moore, che in “Kith and kin” ha disegnato per mesi a mano con il gesso un monumentale albero genealogico della First Nation, sulle orme delle comuni origini descritte nel corso di 65mila anni di storia attraverso 2500 generazioni. Invitando i visitatori a riempire gli spazi vuoti e a prendere atto degli innumerevoli lutti che sono stati negati nel corso del tempo. I buchi e i vuoti volutamente segnalati stanno ad indicare le interruzioni delle costellazioni affettive dell’artista. La difficile ricostruzione di una appartenenza storica collettiva. I nomi oscurati sono le centinaia di morti di indigeni detenuti nelle carceri… nel ricevere il Leone d’oro l’artista Moore ha dichiarato: “Come l’acqua scorre attraverso i canali di Venezia fino alla laguna, poi al mare Adriatico (…) fino al continente australiano – collegandoci tutti qui sulla Terra, i sistemi di parentela aborigeni includono tutti gli esseri viventi dell’ambiente in una più ampia rete di parentela (…). Siamo tutti Uno e condividiamo la responsabilità di prenderci cura di tutti gli esseri viventi, ora e in futuro”.

Il collettivo femminile Maori Mataaho ha creato l’installazione che avvolge l’entrata delle Corderie: un intricato intreccio di cinghie che ricalcano la forma di una culla, realizzata con sapienti tecniche artigianali antichissime tramandate di madre in figlia. Forse un’allusione alla necessità di un contenitore che risvegli l’archetipo della grande madre e della cura dell’universo mondo, così dilaniato da conflitti e da guerre.

Tuttavia, l’elemento di sofferenza che si è registrato nelle critiche degli addetti ai lavori di questa Biennale, rispecchia il fatto che la distinzione tra Nord e Sud del mondo non avrebbe portato ‘a dialogo’ gli artisti dei due emisferi culturali, come sarebbe stato nelle intenzioni del curatore, ma paradossalmente ha acuito tra loro le differenze. Sostenere l’affermazione e la visibilità degli ‘esclusi’ non ha bilanciato la valorizzazione di tutti gli artefici della creazione artistica, da qualsiasi luogo provengano. Forse era difficile costruire una alchimia con un perfetto equilibrio dei diversi linguaggi artistici, forse ha prevalso l’ingenuità del progetto piuttosto che la sua infinita complessità.

Per questo ci preme specificare e celebrare la poetica di Glissant, prescelto come ispiratore di questa 60 edizione. Alla base nel pensiero di Glissant esiste l’intenzione di far interagire il caos del Tutto-Mondo in un ordine creativo dove le tracce culturali si ibridano in nuove sintesi pur mantenendo la loro specificità. Gli obiettivi prefissati dal curatore della Biennale Pedrosa sembrerebbero non aver contemplato a pieno la visione filosofica di Glissant.

Il concetto chiave filosofico di Glissant è quello di creolizzazione, che definisce come: incontro, interferenza, scontro, armonie e disarmonie tra le culture.

Il suo è un pensiero che si oppone all’eurocentrismo coloniale e imperialista perché pone al centro diversamente la molteplicità, la pluralità delle culture. La diversità per Glissant non è semplice differenza ma apertura alla pluralità che abita ogni identità. La sua poetica vive in presenza di tutte le lingue del mondo, perciò la traduzione delle lingue per lui diventa l’arte dello sfiorarsi e avvicinarsi, arte della vertigine e dell’erranza, rinunciare a una parte di sé che si abbandona all’altro… avvicinarsi all’altro senza trasformarsi in lui, mantenendo la propria identità.

 

Julien Creuzet / photo by Marco Zorzanello / Courtesy: La Biennale di Venezia

 

Il valore del multilinguismo, di tutte le lingue del mondo, nella poetica di Glissant è una straordinaria metafora della coesistenza tra i popoli e della preziosa relazione tra loro.

Non si potrà salvare alcuna lingua lasciando morire le altre. Nel tradurre bisogna rinunciare a rendere il ritmo, le assonanze, ma ciò che si abbandona la si affida all’altro, alla lingua dell’altro.

Glissant è il promotore del pensiero arcipelagico per il formarsi di quella rete di testi e di voci che si incontrano e si toccano creando una influenza l’uno sull’altro. Avvicinarsi all’altro senza trasformarsi in lui, per abbandonare quelle certezze immutabili in favore di una accettazione gioiosa della realtà in cui viviamo fatta di costante mutamento, relazione e scambio.

Quando si parla di traduzione non si tratta di mimetismo o copia, ma di incontro, si parla di intercomprensione poetica…. Pur non conoscendo la lingua, si tratta di prendere dagli altri per diventare sé stessi, è un arricchimento, nessuno perde la propria identità, si tratta in sostanza di un dislocamento fruttuoso.

Dobbiamo dunque dare un senso al Caos Mondo, non esiste più una unità riduttrice, dobbiamo avere la forza immaginaria e utopica di capire che il caos non è il caos apocalittico della fine del mondo ma diventa contenitore di senso quando se ne concepiscono tutti gli elementi come ugualmente necessari… nell’incontro con le culture del mondo bisogna avere la forza immaginaria di capire che tutte le culture esercitano allo stesso tempo una forza di unità e di diversità liberatrici. “Quello che crea il Tutto-Mondo è la poetica stessa di questa Relazione che permette di sublimare, attraverso la conoscenza del sé e del tutto, sia la sofferenza che l’accettazione, il negativo e il positivo” (Édouard Glissant, Introduzione a una poetica del Diverso, Meltemi).

 

Nelle intenzioni la 60 Biennale aspirava a questo, resta comunque in ogni caso da incoraggiare l’impegno a perseguire in questa direzione, ad estenderne la comprensione e la complessità nell’arte del prendersi cura di ogni forma di vita per il futuro e il bene dell’umanità.

 

Proprio a fronte di questa filosofia di congiunzione, apertura e scambiare i mondi, ci sembra importante segnalare anche la potente Mostra Liminal di Pierre Huyghe, contemporanea alla Biennale presso la Pinault Collection alla Punta della Dogana. Una proposta artistica visionaria in linea con le teorie antropologiche di Philippe Descola. Da molti anni Huyghe si interroga sul rapporto tra l’umano e il non umano, dalle sue opere emergono altre forme di mondo possibili che sono in continuo sviluppo. Anne Stenne la curatrice afferma che: “La mostra è una condizione transitoria popolata da creature umane e non umane, e diventa il luogo in cui si formano soggettività in perenne processo di apprendimento, trasformazione e ibridazione. Le loro memorie si amplificano grazie alle informazioni captate a partire da eventi, percettibili e impercettibili”. Senza gerarchie e determinismi si generano nuove possibilità di esistenza, tutte di pari dignità. Si tratterebbe – come sostiene Descola – di mettere in discussione la dicotomia tra natura e cultura per ripensare le società sulla base della condivisione del pianeta in un futuro che ci vede insieme oltre le barriere culturali e ideologiche che ci dividono.

 

Photo by Matteo de Mayda

 

 

 

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