Cinema e Amori
L'altro film
Miglior film internazionale agli Oscar 2025, l’opera brasiliana Io sono ancora qui (Ainda estou aqui) di Walter Salles, ha raccolto numerosi riconoscimenti in quanto straordinaria testimonianza sul piano umano e politico: all’81° Mostra del cinema di Venezia il film si è aggiudicato il premio per la migliore sceneggiatura, la protagonista Fernanda Torres (che interpreta Eunice Facciolla Paiva) ha vinto il Golden Globe ed è stata candidata agli Oscar per la sua toccante interpretazione. Il film sta avendo un enorme successo di pubblico in Brasile e in tutto il mondo. Tratto dal libro di Marcelo Rubens Paiva dedicato a suo padre Rubens, ingegnere, ex deputato e oppositore del regime dittatoriale, che nel gennaio del 1971 viene sequestrato nella loro casa a Rio de Janeiro, rinchiuso in un centro di detenzione e poi scomparso. Eunice Facciolla Paiva rimasta sola a 41 anni con cinque figli inizia la sua lotta in nome del profondo amore verso Rubens e contro i soprusi e le violenze del regime dittatoriale. Un esempio di come il femminile possa non arrendersi mai e dimostrare di amare senza riserve. Eunice diventerà avvocato, attivista per i diritti civili, combatterà affinché il Brasile si converta in paese democratico. Come una Antigone contemporanea trasformerà il suo dolore, il lutto dell’amato marito, in rabbia ed energia per ottenere indietro il corpo di Rubens o altrimenti per ricevere un’ammissione di colpa, che quel delitto è realmente avvenuto ed è stato commesso dal regime.
La memoria storica dei crimini avvenuti non dovrà mai essere cancellata, la tragedia dei desaparecidos nelle dittature sudamericane resta per sempre una ferita incancellabile. Descrivendo i sentimenti della madre il figlio Marcelo riferisce come Eunice non amasse essere commiserata, né chiedere aiuto, la frase che usava dire nei momenti di travolgente emozione era proprio: “Sono ancora qui”, una espressione che risuona come un monito e al contempo come gioia per esserci ancora, in quanto incarnazione dell’amore vissuto con Rubens, scrigno della memoria, testimonianza vivente dei crimini commessi dalla dittatura. L’epilogo incredibile della sua esistenza sarà quello di essere colpita da Alzheimer (malattia che da recenti ricerche viene ritenuta esito di traumi violenti), dopo tante strenue lotte affrontate per l’amato marito e per il riscatto del paese: come se sul piano della memoria il suo destino la ricondurrà alla verginità opaca dei ricordi, il male viene lavato via… resta un eco di commovente bellezza quando nelle scene finali del film, Eunice guardando la televisione prova un sussulto quando vede apparire il volto di Rubens, ormai riconosciuto e ricordato universalmente come vittima della dittatura.
Walter Salles ha vissuto in prima linea la tragedia dei Paiva, poiché il regista sin da ragazzo era amico di Marcelo. É riuscito con uno sguardo affettivo, dall’interno, a evocare le atmosfere luminose di quella casa in riva al mare, la vitalità di una famiglia numerosa dove i genitori erano amatissimi dai propri figli. Ricorda nel film il gesto di solidarietà di Rubens, padre esemplare, nel difendere la democrazia contro il regime, opponendo una resistenza pacifica, prestandosi solo a fare da tramite nella consegna delle lettere degli esuli politici ai propri familiari. «Quando ho letto – afferma il regista – per la prima volta Sono ancora qui mi sono commosso profondamente. La storia dei desaparecidos, le persone strappate alle loro vite dalla dittatura brasiliana, veniva raccontata per la prima volta dal punto di vista di coloro che erano rimasti. L’esperienza di una donna, Eunice Paiva, madre di cinque figli, conteneva sia una storia di sopravvivenza al lutto sia lo specchio di una nazione ferita». Salles intimamente colpito dal libro ne ha tratto la sceneggiatura, le riprese del film sono durate ben sette anni, un arco temporale che esplicita la mole emotiva provata dal regista nel dare forma alla rappresentazione.
Un film dunque pensato, scritto e vissuto dall’interno…
Per non dimenticare mai che negli anni Sessanta e Settanta si sono verificati frequenti colpi di stato in Argentina, Brasile, Cile, Uruguay come in molti altri Paesi del Centro e del Sudamerica portando al potere capi militari e violente dittature. Tutti gli oppositori dei regimi venivano torturati, condannati a morte senza processo, fatti scomparire nel nulla. Le dittature di questi Paesi si coordinarono segretamente in quello che fu definito Plan Condor, un piano di ‘ristrutturazione’ orientato a combattere le forze di sinistra in America Latina. Durante l’Operazione, le diverse dittature chiedevano la cattura, l’estradizione o uccidevano i propri dissidenti anche nel territorio degli altri regimi, e in certe occasioni i militari dei Paesi partecipavano congiuntamente ai sequestri e alle torture. Una persecuzione a livello capillare che occultamente ha portato alla scomparsa di ottantamila dissidenti. Tra i film più famosi che hanno narrato questa pagina vergognosa della Storia ricordiamo per la loro potenza: La storia ufficiale (1985) di Luis Puenzo; La notte delle matite spezzate (1986) di Héctor Olivera; Garage Olimpo (1999) e Figli/Hijos (2002) entrambi di Marco Bechis; Una notte di 12 anni (2018) di Álvaro Brechner; Argentina, 1985 (2022) di Santiago Mitre.
In particolare Argentina, 1985, si concentra sul coraggio dei due pubblici ministeri Julio Strassera e Luis Moreno Ocampo che indagarono e perseguirono la dittatura argentina in un processo speciale senza precedenti, nel febbraio del 2011 a Buenos Aires, contro i capi della giunta militare e l’ex presidente Jorge Rafael Videla. La testimonianza delle vittime della dittatura è un affresco doloroso che resta impresso per l’immensa struggente interpretazione dei personaggi. Lapidaria la conclusione dell’arringa di Strassera che vide la condanna degli imputati: “Nunca más!” (Mai più!).
Tra tutti i crimini commessi in Argentina, nel film di Luis Puenzo La storia ufficiale, trapela anche l’orrore dei 500 neonati rapiti ai genitori uccisi e dati in adozione ai loro carnefici, figli considerati ‘prede di guerra’. Il processo a Videla era stato attivato da un gruppo di donne decise a ritrovare i loro figli e nipoti scomparsi: le nonne de Plaza de Majo.
Sulla scia luminosa di queste straordinarie donne si annoda la storia di Eunice Facciolla Paiva. Donne che con coraggio non si sono arrese e hanno fatto dell’amore per i propri cari scomparsi una ragione di vita, donne appassionate in difesa dei diritti umani e della democrazia.
Nel film di Salles il linguaggio delle immagini si sviluppa scandagliando con sapienza l’alternanza della luce, dal chiaro allo scuro simbolicamente si allude al mondo terrestre e a quello infero dominato dal caos magmatico di un inconscio collettivo arcaico deprivato della guida equilibrata della coscienza, della ricerca di senso, dell’etica. L’acuirsi della polarizzazione tra bene e male, segna l’oscurarsi della civiltà, solo le dittature riescono a instaurare radicalmente il trionfo del negativo.
Nel film di Salles il lungomare è scintillante di vita, l’atmosfera di festa unisce bambini, adolescenti e adulti, l’ironia, i pranzi e i balli, i progetti per la costruzione di una nuova casa, tutto l’insieme così ritmicamente miscelato contagia lo sguardo e l’ascolto dello spettatore, lo fa godere della gioia di una famiglia felice, lo coinvolge con la colonna sonora che riaccende i ricordi musicali di quell’epoca.
Pochi presagi nei fotogrammi iniziali preludono alla crudeltà imminente che travolgerà Rubens e la sua famiglia. Quando lo sguardo di Eunice si volge interrogativo verso il rombo assordante dell’elicottero che si avvicina mentre sta nuotando di fronte alla sua casa; quando la macchina di un amico della figlia primogenita sfreccia con la radio a tutto volume in città, i giovani sono fermati dalla polizia mentre attraversano un tunnel, sbattuti al muro e perquisiti con violenza.
Dalla cattura di Rubens in poi arriva il buio. I corridoi angusti del centro di detenzione, la benda sugli occhi di Eunice e della figlia, anche loro prelevate per essere interrogate, con i metodi esasperanti che i carcerieri applicano per far crollare le loro vittime. Le tenebre della prigione labirinto sono spezzate solo dai lamenti e dalle urla di chi viene torturato. L’orrore viene illuminato dal coraggio di Eunice che non si arrende, che chiede, che pretende la verità. Tutto quello sporco che le si è attaccato addosso durante la carcerazione sembra sciogliersi nel momento in cui viene rilasciata, sotto la doccia strofina la pelle per tornare a sperare, nel momento in cui al mattino trova tutti i suoi figli nel letto abbracciati a lei, nel momento in cui rilascia un’intervista a un importante testata e alla richiesta del giornalista di mostrare tristezza nello scatto di una fotografia, innalza invece con sfida e dignità il suo sorriso e quello dei suoi figli, opponendosi alla commiserazione, ai pietismi.
L’uccisione da parte dei sicari del regime del cucciolo di cane adottato dalla famiglia è presagio della fine di Rubens, ma la rabbia di Eunice verso gli assassini emerge con i toni di una eroina greca, fa intuire che non ci sarà mai perdono per coloro che si sono resi complici dell’orrore.
Quando infine verrà consegnato a Eunice il certificato di morte del marito il suo animo potrà placarsi e scivolare lentamente nell’oblio… in questa ultima parte del film, i colori tornano ad essere caldi e vividi. La grande famiglia che ha saputo crescere, nutrendola con amore, nell’elaborazione del lutto di Rubens e continuando a seminare speranza, la circonda con immensa affettività.
«La nostra – spiega Marcelo – era una famiglia felice distrutta dalle circostanze della storia, come avviene oggi in molti posti del mondo».
Non a caso a rinforzare il tessuto emozionale del film il regista ha scelto di far interpretare Eunice da anziana e da giovane a due attrici che nella vita sono madre e figlia: Fernanda Montenegro e Fernanda Torres.
Alle loro immagini si sovrappongono i volti delle donne di Plaza de Majo. La genealogia di tante donne sudamericane che hanno denunciato attraverso il loro dolore e la loro arte, che hanno combattuto per amore verso i propri cari, in difesa della passione politica, per la giustizia sociale.
Vorrei anche ricordare gli arazzi opera delle donne cilene esposti alla Biennale d’Arte a Venezia nel 2024, le Arpilleristas. Chiamati con il termine spagnolo che designa i sacchi di iuta che sono la base di supporto per questi manufatti tessili ricamati e realizzati in Cile durante la dittatura militare di Pinochet (1973-1990). Si tratta di oltre duecento opere donate al Museo del Barrio di New York. Queste opere vogliono ricordare le lotte per il cambiamento istituzionale contro le dittature. Le scene di vita descritte sono realizzate con le stoffe degli abiti dei desaparecidos cileni. Il sole splendente negli arazzi è segno di speranza nei confronti del cambiamento.
La risposta al trauma per tutte queste donne del film di Salles e non solo, è dunque la memoria, la forza dell’amore, il coraggio della speranza che si trasforma in azione, il fare e disfare della creatività.
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