Cinema e Amori
Cult
A duecentocinquant’anni dalla morte di Jane Austen, non potevamo lasciarci sfuggire l’occasione di ripensare quel suo modo di concepire e raccontare l’amore, apparentemente così lontano dai nostri giorni. Prendiamo la versione cinematografica di Orgoglio e pregiudizio di Joe Wright (2005). Il tempo che ci separa dall’autrice ci permette di mettere a fuoco l’originalità di Jane Austen, capace di penetrare con lo sguardo ben aldilà della canonica dello Hampshire in cui trascorse la vita. Il suo sguardo non sorvola nulla, si spinge divertito attraverso inchini, cuffiette, crinoline e balli, attraverso lenzuola stese ad asciugare e oche che svolazzano in cortile. Senza farcene accorgere, ci fa credere di credere che quello sia il ‘mondo’, lancia incipit come un’esca, ci dice: “E’ una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di una buona fortuna sia in cerca di moglie.” In realtà, questa donna che non si allontanerà mai dalla canonica in cui è nata, non prenderà marito, morirà a quarantadue anni, autrice di sei romanzi perfetti, rimasta pressocché sconosciuta da viva, è una donna capace di trasmetterci un ‘discorso amoroso’. Non sull’amore, ma d’amore. Leggerla ci offre un piacere che si rinnova a ogni frase, quelle frasi “scintillanti” (così le definisce Virginia Woolf) che dovette limare con precisione e grande piacere, nascondendo le pagine sotto la carta assorbente ogni volta che qualcuno passava nella stanza di soggiorno dove scriveva, tra interruzioni e distrazioni. Comicità, ironia, la capacità di crocifiggere con grazia le convenzioni dell’ordine sociale, trasformano la banalità del quotidiano in occasioni per apprezzare Der Witz, la frizzante energia dello spirito che se la ride del sussiego dell’Io. La risata non lascia residui di rabbia rancorosa: l’arroganza di una Lady Catherine de Bourgh (Judy Dench), il servilismo di un reverendo Collins (Tom Hollander) sembrano messi in scena per il piacere di metterli alla gogna.
Nel film, fedele alla trama del romanzo, si faranno ben quattro matrimoni. Siamo nel mezzo della campagna inglese di fine Settecento, tra movimenti delle truppe che si preparano alla guerra contro Napoleone. Protagonista della vicenda sembrerebbe essere proprio ‘il matrimonio’, quasi a voler rendere giustizia ai nervi eccitati della signora Bennet, madre di cinque figlie tutte da sposare. Secondo la legge di successione in vigore nell’Inghilterra di quegli anni (ma ancora fino a tempi recenti), se non c’era in famiglia un figlio maschio, la proprietà non poteva andare alle figlie, ma passava al più vicino congiunto di sesso maschile. Così potremmo anche simpatizzare con le ansie e le caldane della signora Bennet (Brenda Blethyn), preoccupata di sistemare la progenie dato che la casa di famiglia è destinata a un lontano cugino, il sussiegoso reverendo Collins (Tom Hollander, spassosissimo); se tali preoccupazioni non fossero così spudoratamente convenzionali da aver poco a che fare con l’amore materno, ma molto con un affare di compra-vendita basato su rendite, rispettabilità, decoro. L’intreccio ci porterà a vedere accasate quattro giovani donne, tre signorine Bennet e la loro amica, signorina Lucas, residenti in un piccolo villaggio di campagna, con quattro nuovi venuti, tutti provenienti da ‘fuori’. Un canovaccio dal perimetro ben delimitato, ma pieno di sorprese. Gli accoppiamenti, infatti, seguiranno regole combinatorie meno prevedibili di quello che all’inizio ci aspetteremmo, e nelle quattro coppie vedremo rappresentate diverse forme di realizzazione, una specie di graduatoria di matrimoni possibili: da quello riparatore dell’intemperanza giovanile della minore delle sorelle Bennet con il ‘cattivo’ che approfitta di lei; quello dettato dalla paura di restare zitella senza mezzi, della signorina Lucas con il reverendo Collins; quello d’amore esitante, inizialmente succube delle circostanze, di Jane Bennet con il signor Bingley; e quello top della graduatoria, l’amore tra Elizabeth Bennet e il signor Darcy che rappresenta il superamento di orgoglio e pregiudizi reciproci da parte di due personalità forti che si scontrano, e proprio dal cozzo delle rispettive armature fanno emergere un sentimento autentico.
Nel film lo scintillio delle frasi (spesso riprese direttamente dal testo), l’arguzia dello stile, la divertita ironia con cui la scrittura ritrae i diversi aspetti della natura umana (tutti godibili, nessuno messo da parte) sono resi con successo attraverso la costruzione delle scene, il taglio della luce, le inquadrature, la vastità degli esterni a contrasto con il confinamento negli interni, la musica, con la sua ‘piccola frase’ ricorrente, sempre sospesa, sempre ripresa…Tutto è movimento, flusso, ritmo, tant’è che il ‘senso’ implicito del discorso amoroso sembra dire: la vita è una danza, e non solo nelle grandi scene dei balli! La danza all’epoca di Jane Austen era l’unica occasione in cui una giovane donna e un giovane uomo potessero guardarsi negli occhi, sfiorarsi le dita, rivolgersi la parola direttamente, trovarsi a tu per tu, sia pure in mezzo a una folla: e la danza aveva una cornice così strutturata, così definita, che uno sguardo, un sorriso, un contatto in punta di dita potevano condensare un’intera dichiarazione d’amore, o il più sdegnoso rifiuto. Dunque, ecco un cast di bravissimi attori, capaci di rendere nella loro interpretazione le qualità espressive di un continuo puntuale contrappunto tra il discorso dell’io dei personaggi, affidato a brillantissimi dialoghi, e quello del ‘soggetto’ (che è sempre soggetto dell’inconscio), che sfugge loro in un tremore della mano (Darcy che sfiora le dita di Elizabeth per aiutarla a salire in carrozza), una fuga dello sguardo (Elizabeth, quando si rende conto di essersi completamente sbagliata sul conto di Darcy).
Keira Knightley interpreta deliziosamente Elizabeth Bennet, Lizzie, protagonista femminile spiritosa, intelligente, piena di brio: “la creatura più incantevole mai apparsa in un libro stampato”, come la definì Jane Austen in una lettera alla sorella. Lizzie è divertente, provocatoria, un’outsider, la capobanda delle cinque sorelle Bennet. Queste, assieme alla madre, la signora Bennet fanno da chiassoso contraltare femminile (al limite dell’isteria) al silenzioso signor Bennet (un caustico, scarmigliato Donald Sutherland), capofamiglia asserragliato nel suo gineceo, determinato a non farsi sommergere. Fin dalla prima inquadratura, in cui compare mentre passeggia a grandi passi, un libro aperto tra le mani, Lizzie sta nel mezzo, sta per sé, osserva, partecipa, commenta, si diverte. Nemmeno per un attimo si lascia inglobare, anche se la sua partecipazione all’euforia delle sorelle e della madre per l’arrivo da Londra di Mr. Bingley, promettente scapolo dotato di una rendita annua di cinquemila sterline, è autentica. Lei è insieme scettica e divertita dall’aspettativa dell’incontro col nuovo vicino. Potremmo dire che sa tenere il suo centro, non perde mai la sua postura verticale, sottolineata dagli abiti in stile impero, le acconciature dei capelli raccolti, la figura slanciata e sottile. Eppure, nel dipanarsi della vicenda, tra il ballo iniziale in cui avviene l’incontro col misterioso Mr. Darcy (MacFayden), riservato al limite della maleducazione, e il lieto fine con l’immancabile “…e vissero felici e contenti” , quanto conflitto interiore, quanto dibattersi tra “prime impressioni” (questo era il titolo originale pensato dalla Austen per il romanzo) e riconsiderazione, ripensamento, lavorio in aprés-coup su quel suo sentire immediato e così forte, così fiero, in cui lei si riconosce! Quanta capacità di mettere in discussione l’impianto verticale del suo saper ragionare, avere la battuta pronta, l’ardire di ribattere sempre, veloce, diretta, caustica, efficace a chi vorrebbe rimetterla al suo posto! Durante il ballo iniziale in cui avviene l’incontro, Lizzie ascolta per caso un commento di Darcy all’amico Bingley su di lei: “Appena tollerabile, oserei dire, non abbastanza attraente da tentarmi”. Se lo legherà al dito: “Avrei perdonato più facilmente la sua vanità, dice Lizzie all’amica, se lui non avesse ferito la mia”. L’aristocratico hauter di Darcy, indossato come una seconda pelle, tradisce tuttavia sguardi ardenti, che insistono; e anziché ammorbidirsi, più si sente attratto da lei, più si congela (come fanno le prede nel freezing!), rivelando la lotta interna che lo tortura. “Ho lottato invano e non posso sopportarlo più a lungo”, confesserà nella sua dichiarazione d’amore finale, che è una specie di capitolazione dell’orgoglio alle catene di Eros. Ma che dichiarazione! Dichiara l’amore, ma non nega il disprezzo che ha accompagnato quel sentimento al suo nascere, tanto si sente al di sopra di lei, della sua famiglia, della loro classe sociale…Si beccherà un rifiuto non meno carico d’orgoglio, non meno sofferto nel resistere. Ma basta così. Sarà necessaria una seconda dichiarazione, mentre nel frattempo Elizabeth si sarà dovuta ricredere sul conto di Darcy, e sulla propria capacità di giudizio al punto da dover ammettere: “Non ho mai conosciuto me stessa, prima d’ora!”. La scena finale -per quanto superi in romanticismo la misura volteriana della Austen- è pura magia cinematografica. Nella nebbia azzurrina del mattino, musica del piano che a onde riporta il motivo della piccola frase, Darcy attraversa il prato verso Elizabeth. Lui è senza cravatta e lei senza corsetto. Lui cammina, non è a cavallo né in carrozza. Un raggio di luce dorata contorna le silhouette delle loro fronti che si toccano. Resta questo cammeo dei due innamorati, ritagliati sullo sfondo della commedia umana che tanto diverte Jane Austen, emblema di un impeccabile senso dei valori umani, una coscienza incorruttibile, il coraggio di essere sé stessi e di ammettere di essersi sbagliati. Una lezione non da poco per i nostri giorni.
Titolo originale: Pride & Prejudice
Produzione: Regno Unito, Francia, USA
Anno: 2005
Regia: Joe Wright
Sceneggiatura: Deborah Moggach
Fotografia: Roman Osin
Musica: Dario Marianelli
Cast: Keira Knightley, Matthew Macfayden, Donald Sutherland, Rosamund Pike, Brenda Blethyn, Tom Hollander, Rupert Friend, Judy Dench
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