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Cinema e donne

The Best of

Roberto Herlitzka

Il lavoro dell’attore

Lori Falcolini

IN QUESTO SPAZIO PUBBLICHIAMO L’INTERVISTA AL GRANDE INTERPRETE ROBERTO HERLITZKA IN OCCASIONE DEL NASTRO D’ARGENTO ALLA CARRIERA.

 

Pubblicato su Eidos n. 28/2014

 

Roberto Herlitzka è uno dei più grandi interpreti del cine- ma italiano e soprattutto del teatro per la capacità di rico- prire ruoli, pur diversissimi tra loro, imprimendo a cia- scuno intensità e misura. Artista raffinato e poliedrico, con uno stile e una voce inconfondibili Herlitzka comuni- ca emozioni, poesia, ironia. Nei suoi oltre cinquanta anni di lunga e prestigiosa carriera, ricca di premi e riconosci- menti, ha lavorato con i più importanti registi cinemato- grafici e teatrali quali Costa, Wertmüller, Bellocchio, Leto, Mikhalkov, Faenza, Gianluca e Massimiliano De Serio, Piccioni, Sorrentino e ancora Ronconi, Calenda, Lavia, Squarzina, Cappuccio. Tra i film di cui è stato interprete, ricordiamo il pluripremiato Buongiorno, notte - nel ruolo di Aldo Moro- L’ultimo terrestre, Marianna Ucrìa, L’ultima lezione, Il rosso e il blu, La città ideale, fino ai recenti Bella addormentata, La grande bellezza. Anche la televisione l’ha visto interprete di fiction dagli anni Settanta ai giorni nostri. Citiamo, per ultimo, soltan- to pochi dei numerosissimi lavori teatrali che lo hanno rivelato e poi consacrato: Francesca da Rimini e L’Anitra selvatica, degli anni Sessanta, Senilità, Il ventaglio, Zio Vanja, Otello, Re Lear, Elisabetta II. Nell’ultimo lavoro teatrale accolto con una standing ovation al Mittelfest 2013, Una giovinezza enormemente giovane, Roberto Herlitzka dà vita al pensiero e all’umanità di un altro grande maestro, Pasolini.

 

Roberto Herlitzka, il monologo teatrale Ex Amleto, di cui è regista e interprete, mi ha fatto pensare a un Amleto che “si guarda allo specchio” riflettendo ora un sé “gio- vane” che è dentro il dramma ora un sé “vecchio” che osserva il suo destino.

Io ho colto semplicemente un’occasione che mi era stata data dal regista Walter Pagliaro di fare degli incontri su Amleto. Siccome non avevo mai fatto Amleto in scena, ho deciso di dire tutte le sue battute e non quelle degli altri personaggi, tranne qualcuna, per poter dire di aver detto almeno una volta in pubblico tutte le battute di Amleto. Questo è avvenuto quindici anni fa; evidente- mente la cosa ha funzionato perché mi chiedono ancora di farlo. Tutto quello che si può dedurre da questo spettacolo è un di più che mi fa piacere; ma io non avevo pensato né di fare un attore allo specchio, né di fare un giovane o un vecchio. L’unica cosa che ho pensato, meglio sentito, sic- come mi ero innamorato artisticamente di Laurence Olivier nel film Amleto, è che mi sarebbe piaciuto -come una specie di miraggio- di essere lui; ma, naturalmente, essendo io diverso non ci ho neanche provato. Il senso di nostalgia, di qualcosa che non è stato, può provenire da quell’immagine senza però che sia cambiato nulla nel mio modo di riferire questo personaggio. La grande com- plessità del testo può suggerire infinite cose. Tanto per fare un esempio, il titolo stesso. Io l’ho trovato perché volevo dire che sono un ex Amleto, non ho più l’età per interpretare questo personaggio; alcuni hanno invece pen- sato che significasse “da Amleto”. Per esempio, nel testo c’è un’enorme quantità d’ironia -spesso il mio pubblico ride- che io ho tirato fuori perché questa corda mi è natu- rale. Però, non ho dovuto fare alcuna forzatura del testo. Amleto è, come si diceva in un bellissimo saggio, un po’ il buffone. Non essendoci questo personaggio come in quasi tutti i lavori di Shakespeare, Amleto è diventato “erede” di Yoric, del teschio. Dicono alcuni, addirittura, che Amleto potrebbe essere figlio di Yoric – aggravando la posizione morale della madre di Amleto (ride)- però queste sono fantasie che possono nascere proprio dalla complessità del testo.

 

 

Che rapporto ha con questo testo teatrale?

Secondo me, Amleto non è un personaggio; è una persona. I personaggi vivono nel cerchio della loro vicenda; Edipo, Otello, Re Lear esistono in quanto sono al centro di una loro tragedia. Amleto, invece, è capitato in una tragedia.

È forse l’unico personaggio teatrale che, secondo me, ha questa particolarità. Lo vedo come una persona che potresti incontrare ed io mi sono avvalso della mia distanza da lui - certamente di età- per poterlo recitare, per potere diventare lui non essendolo neanche per sbaglio. Il mio rapporto con Amleto è diverso da quello con tutti gli altri personaggi teatrali e forse è un rapporto che c’è da sempre. Mi ero in- namorato fin da ragazzino di questo personaggio; ho ripetuto le battute infinite volte, da solo, davanti allo specchio e quando si è trattato di farlo, in fondo non ho fatto che ripe- terlo anche per gli altri.

 

Lei ha detto che la parola, la materia di cui si serve un autore creando, è la quintessenza del teatro moderno. Di tutto il teatro. Agli autori che mi propongono un testo teatrale io faccio sempre l’obiezione, se è il caso, di non avere inventato un linguaggio, cioè di avere semplice- mente raccontato una storia; magari anche bene, con dei personaggi che sono credibili. Secondo me è importante per il teatro che la parola sia la materia prima e non sia semplicemente un veicolo per esporre una storia. Perché allora va bene un film dove la parola ha un valore secon- dario ma, in teatro, la ragione per cui si scrive una storia è quella di esporla con delle parole che siano una inven- zione. Gli autori non capiscono e si offendono regolar- mente; dicono che io voglio una lingua barocca. Io voglio una lingua che sia vera, viva, necessaria. Ecco, questo posso dire circa la parola e d’altronde, se si prende il tea- tro classico, qualunque esempio si faccia dimostra che si è inventato un suo linguaggio. Il tipo di linguaggio non ha nessuna importanza, purché crei la realtà e questa non sia obbligata dal linguaggio a essere o non essere. Potremmo forse immaginare Pirandello se non avesse inventato quella lingua o Goldoni o chiunque altro? Purtroppo, gran parte del teatro più grande lo facciamo tradotto; per esem- pio Shakespeare.

 

In Sette opere di misericordia (regia di Gianluca e Mas- similiano De Serio) lei interpreta un personaggio inde- cifrabile se non per la miseria esistenziale. È vecchio, malato, praticamente muto per la tracheotomia ma an- che perché straniero per la giovane donna che piomba nella sua vita solitaria. Che cosa ha significato per lei che è un attore “di parola” utilizzare quasi esclusiva- mente il registro corporeo?

In cinema, è un aiuto addirittura non parlare perché un atto- re è costretto a pensare le parole che non dice. In fondo, i nostri silenzi sono tutti pieni di parole; una pausa è addirit- tura un buco nero di parole che si addensano al punto da non uscire più. Se il personaggio lo comporta - non si fanno molti personaggi muti a cinema e se si fanno è per- ché si vuole mostrare che non possono o non vogliono par- lare per qualche ragione profonda - questo aiuta a intensi- ficare la propria immedesimazione col personaggio. Se poi è un personaggio che soffre e vive una vicenda così trau- matica come quella del film, addirittura è più facile – (ride) nulla è facile – non parlare. Anche perché, le parole che potrebbe dire un personaggio del genere chi le va a trova- re? Non sarebbe neanche nato questo personaggio, mi pare, se avesse potuto parlare.

 

Anche in Il corpo dell’anima lei interpreta il ruolo di un anziano sceneggiatore, vedovo e misantropo, tutto giocato sul registro del corpo cui fa da contrappunto la sua voce narrante. Mi ha commosso la dignità del personaggio, il suo arrendersi all’eros, come in un percorso iniziatico.

Sì, certamente. La voce narrante è un diario. Salvatore Pisci- celli, che è regista e scrittore, ha concepito la narrazione del film in forma di diario; quindi, non semplicemente un’infor- mazione, una riflessione su quello che succede, ma proprio uno scritto letterario. La doppia azione è più chiara, in un certo senso, perché si tratta di due linguaggi molto diversi tra loro. Anche a me il film è piaciuto molto e non ha avuto quel- lo che si sarebbe meritato. È pieno di elementi che funziona- no; anche la ragazza – (ride) quella specie di coatta- funziona benissimo. Lo hanno dato molto di notte, in televisione, come se fosse un film a luci rosse! Io, tra l’altro, ho fatto un altro film, Aria, che non ha avuto l’onore di essere proiettato, pra- ticamente. Anche lì il tema è forte: un uomo che vuole essere una donna, ma non è un trans. Sarebbe valsa la pena.

 

Quale secondo lei è la differenza, per un attore, tra ci- nema e teatro?
Sono due modi completamenti diversi di recitare. In teatro, bisogna trovare una verità che valga non solo immediata- mente ma per sempre. Il teatro “classico” - così come io lo intendo- rappresenta una realtà che vale come quella di una poesia, sia per il passato che per il futuro, ossia universale. In cinema si rappresenta una verità immediata, credibile in questo momento. Lo spettatore che guarda un film deve credere a ciò che vede; in teatro, invece, deve credere fan- tasticamente, immaginando. In teatro si vede una metafora della vita e della morte. Questa è la differenza fondamentale che naturalmente comporta una differenza di recitazione.

 

Nel lavoro teatrale Il soccombente ovvero il mistero Glenn Gould, la sua recitazione è “musicale”, mi ha fatto pen- sare alle Variazioni di Bach di Glenn Gould. Come “stu- dia” un personaggio?

Io studio molto a casa, uso tre registratori. Sul primo, registro il testo; se mi viene una frase o una parola che mi sembra ben detta, con la giusta intonazione, la registro sul secondo; poi faccio una specie di scelta di queste “scoperte” e se qualcuna mi piace la registro sul terzo. Piano piano viene fuori tutto lo studio. Naturalmente, non c’è niente di assoluto perché il re- gista può chiedere qualche altra cosa ed io, in quanto attore, faccio lo strumento. Questo studio – che è un paradigma del mio lavoro - diventa un po’ come uno spartito. Se io trovo un’intonazione e la trovo naturalmente non con l’orecchio, con la mente o con la voce ma con tutto insieme, con una spe- cie d’immedesimazione, se necessaria, con il personaggio; se riesco a trovare un modo di dire una frase che esprima vera- mente quello che il personaggio vuole, la utilizzo. Ecco perché le mie ricerche sul parlato e sui cambiamenti, in un certo senso, sono analoghe a quelle che potrebbe fare un pianista e possono – magari (ride) - sembrare in accordo con Glenn Gould. Anche perché Thomas Bernhard, l’autore del testo Il soccombente, aveva orecchio a questo stile. Il suo stile mar- tellato, ripetuto, che oggi viene continuamente imitato, non è frutto di un caso ma di una ricerca. E forse le due cose vanno bene insieme.

 

Lei scrive e recita volentieri versi. Per un attore, la poesia è importante?
Sì, direi che è molto importante perché la poesia è precisa- mente quella espressione letteraria che varrebbe la pena di mettere in scena. Qualunque testo teatrale di valore non è molto diverso da una poesia perché la poesia è trovare le parole che si vogliono dire in modo totale, indiscutibile, eterno. Le parole di Amleto non sono meno assolute delle parole di una poesia. E questo vale per qualunque autore. Certo la poesia ha, in più, una sua forma decisiva che può aiutare; il ritmo rende più intenso il colore, il significato. Se la frequenti molto, ti accorgi che dentro a una poesia ci sono i suggerimenti ritmici, musicali o di significato che aiutano l’attore a dirla. In più la poesia è scritta in una lingua che è quella, inequivocabile. Come quando dici “Dolce e chiara è la notte e senza vento” (Leopardi).

 

Tra le sue interpretazioni c’è anche il ruolo di una nazista novantenne in Lasciami andare, madre (Premio Gassman come migliore attore).
Non era la prima volta che interpretavo un personaggio femminile. La prima è stata ne Il Misantropo di Molière con la regia di Walter Pagliaro. Il misantropo, ritiratosi a vita privata, ricorda a voce alta tutto quello che ha vissuto e dà voce a tutti i personaggi, tra cui Célimène. In Ex Amleto faccio Ofelia; in Ex Otello ho fatto Desdemona cantando anche una canzone composta da me. In una nar- razione, viene naturalmente un po’ da imitare, mettersi nei panni anche vocali di una donna. In teatro, la cosa può essere anche più forte, mirata. Io trovo che per un attore vietarsi di fare dei personaggi femminili è come togliersi una gran parte di espressioni teatrali. Come per un musici- sta suonare soltanto Chopin o non suonare Chopin come faceva Glenn Gould. Naturalmente i personaggi femminili non si possono fare in scena, tranne che la vecchia nazista da cui ero truccato. Però, le battute di Giulietta, di Desdemona perché un attore non deve poterle recitare? Lo dico anche perché ho avuto un meraviglioso, geniale mae- stro che era Orazio Costa. Quando recitava le battute di un personaggio femminile, le diceva come la più grande attri- ce avrebbe fatto.

 

Nel 2013 ha ricevuto il Nastro d’Argento alla carriera. Conta l’età, nell’esperienza di un attore? Assolutamente sì. S’impara a recitare molto avanti negli anni. Si può recitare bene anche a pochissimi anni per talento personale però l’esperienza ti fa progredire nella tecnica e ti fa capire che la tecnica permette di esprimersi completamente. Dico sempre che bisogna avere la propria parte talmente sicura dentro di sé da poterla dimenticare e ritrovare nel momento del teatro. Per riuscire a farlo ci vuole attenzione a tutti i propri mezzi, la voce, i gesti e soprattutto i toni. Li vai a trovare nel parlato, nella vita. Tutte le scoperte si possono fare con l’osservazione, con l’ascolto. Addirittura a me, per una sinistra deformazione professionale, è successo nei momenti di vero e proprio dolore, di sentirmi dire “Ecco, tu quando sei disperato fai così”. Queste sono cose che quasi è meglio non dire, però sono un estremo che in fondo dimostra che un attore, che ha deciso di esserlo, guarda la realtà.

 

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