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Cinema e guerra

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Schinder’s List

il rapporto tra non visibile e visibile

Alessandro Nardis

Analizzare l’opera di Steven Spielberg è impresa ardua, anche per l’«incontinenza» artistica del regista. Proponiamo quindi una breve retrospettiva della sua filmografia soffermandoci su un film che a nostro avviso esemplifica a livello paradigmatico la sua poetica: Schinder’s List (1993). La produzione del regista si presta ad essere analizzata per l’espressione di una tensione artistica propria della New Hollywood, in bilico tra cinema d’autore e vocazione commerciale.

Questa vocazione rappresenta anche il peccato originale del regista: i critici che elogiano la sua produzione provano un certo imbarazzo, come se dovessero difenderlo dall’accusa di fare cinema commerciale; quelli invece che lo criticano sono costretti comunque ad ammirarne l’importanza e la centralità che il regista si è ritagliato nella cinematografia contemporanea. Spielberg è il regista, tra quelli della new era (Scorsese, Coppola, Lucas, etc.), che meglio si è adattato alla politica degli studios: il rapporto tra Spielberg e Hollywood non ha nulla di conflittuale. La poetica dell’autore coincide proprio con le logiche produttive del sistema hollywoodiano. Fin dai suoi primi vagiti Hollywood forgia i capisaldi della narrativa cinematografica occidentale grazie alla presenza di elementi costanti e facilmente intellegibili da parte dello spettatore, che ne promuovono l’identificazione con il meccanismo filmico nel suo complesso, come la rottura della situazione iniziale, l’introduzione di uno o più conflitti e il conseguente scioglimento finale, il tutto condito dalla presenza sullo schermo di un eroe – figura centrale del dispositivo narrativo, interpretato da un volto noto e riconoscibile presso il grande pubblico, che diede vita poi ad un altro aspetto peculiare della Hollywood classica, quello dello star system – grazie al quale si stabilisce una συμπáθεια (sympatheia) tra spettatore ed eroe/attore. Spielberg è tutto questo. La passione per il cinema è testimoniata fin dagli esordi amatoriali girati in 8mm, ma nel 1968 vi è la svolta: conosce il produttore televisivo Sidney Sheinherg che gli affida la realizzazione del cortometraggio Amblin' (1968), grazie al quale si fa conoscere in ambito industriale.

Il suo primo successo è rappresentato dal film tv Duel (1971), al quale segue Sugarland Express (1974), lungometraggio che vince la Palma d’Oro a Cannes per la sceneggiatura. È con Lo Squalo (1975) però che conosce il vero successo presso il grande pubblico, incassando circa 470 milioni di dollari - un vero record per quegli anni – e assicurandosi ben tre Oscar, piazzando Spielberg come uno dei più famosi autori della New Hollywood.

 

 

Nello Squalo affiorano archetipi propri della cultura occidentale: la cultura biblica, la contrapposizione tra bene e male, l’eroe e il suo destino, ma anche le leggende del folclore nordico, con i colossali mostri marini che inghiottono intere navi. Ma ci sono anche influssi della letteratura americana: le allegorie del Moby Dick di Melville o de Il vecchio e il mare di Hemingway, l’eterno scontro dell’uomo contro le avversità della natura e contro i nemici della propria razionalità. L’enorme squalo bianco del racconto diviene una bizzarra metafora sul pericolo che alligna nei recessi della mente umana, nei territori inesplorati dell’inconscio, da cui talora emerge per prevalere sulla razionalità e seminare distruzione e terrore. Spielberg dimostra di aver appreso la lezione hitchcockiana (un uomo qualunque alle prese con qualcosa di straordinario), sondando le dinamiche dell’animo umano con tutti i suoi orrori e le sue metastasi. E veniamo proprio al focus dell’articolo: l’analisi della pellicola che forse più di ogni altra ha forgiato un nuovo modo di intendere e di produrre cinema all’interno degli studios.

La pellicola contiene in sé numerosissime microstorie della vita nel ghetto e nei campi di prigionia; un’umanità complessa e particolare dominata da due figure contrastanti, quella di Oskar Schindler e di Amon Göth. Il regista sceglie di filtrare la storia per mezzo della figura, realmente esistita, dell’imprenditore tedesco Schindler: opportunista, libertino, estremamente ambizioso, iscritto al partito nazista, mutò, nel corso degli eventi, le proprie priorità, sostituendo alla ricerca del successo personale la lotta per la salvezza degli ebrei, impiegando, presso la fabbrica, un numero sempre maggiore di operai, accampando pretesti economici, dietro i quali si celavano motivazioni misericordiose. Il film è una lirica testimonianza dell’assoluta irrazionalità dell’azione hitleriana. È inevitabile che il giudizio sul film sia condizionato dall’aspetto tematico; Spielberg però riesce a sintetizzare due spinte: lo stile del film è parte integrante del contenuto. Le scene in esterni sono caratterizzate da un bianco e nero ben calibrato mentre quelle in interni – le stanze dove si decide la vita e la morte – sono caratterizzati da forti contrasti, con la luce e il buio ad avvolgere rispettivamente salvatori e carnefici. La scelta del bianco e nero inoltre suggerisce un monito per lo spettatore, ricordandogli che quelle vicende, lontane cronologicamente, fanno parte di un mondo reale, che non deve essere rimosso ma storicizzato.

L’eccezionalità del protagonista è ovviamente legata alla sua natura ambigua di un marito adultero, iscritto al partito nazista, desideroso di sfruttare la guerra e la caduta in disgrazia degli ebrei per farci una montagna di soldi. Schindler, nell’incedere narrativo, diviene figura buona e vero salvatore; al contrario Amon è l’incarnazione del male assoluto, la cattiveria immotivata che distrugge vite altrui gratuitamente. Sebbene il film non manchi di momenti autoriflessivi infarciti di una certa retorica, ci sembra un prodotto sincero e intimo, dove la sensibilità di Spielberg crea momenti di puro lirismo, come nella sequenza allegorica dove si alterna il fumo di una candela spenta, quello di un treno a vapore e quello di una ciminiera.

Impeccabile la scelta formale di rappresentare, nella parte del film in bianco e nero, la bambina che indossa un cappotto rosso: unico elemento colorato che passa innocente fra spari e urla, per poi sfilare più tardi, inerme, con lo stesso abito, sotto gli occhi di uno sconvolto Oskar Schindler. La strategia formale del colore, semplice espediente narrativo, rappresenta un'idea che può essere solo intuita: è un dovere morale codificare l'immagine della bambina morta, il più atroce dei “morti della lista”.

Dalle brevi analisi qui proposte, risulta che il cinema di Spielberg (indipendentemente dal genere trattato) si serve di precise strategie formali, che possiamo riassumere in: leggibilità dell’immagine filmica; rapporto tra visibile e non visibile; desiderio del protagonista maschile che si tramuta in azione; omogeneità tra logica narrativa e logica della messa in scena basata sulla motivazione e rapporto di causa ed effetto; uso del campo e controcampo come ripetizione che produce valore semantico.

In conclusione, l'autore che più di ogni altro ha saputo incarnare i tratti peculiari del cinema della New Hollywood, è in fin dei conti, anche quello che ha mantenuto e conservato il retaggio del cinema classico americano, qui inteso come “fabbrica di sogni”: conscio e affascinato sostenitore della magnificente natura di spettacolo popolare del cinema e del suo potenziale più immediato, Spielberg è stato però anche uno dei principali cantori dell’uomo medio americano, dei suoi valori, delle sue speranze e delle sue paure.

 


Titolo originale: Schindler's List

Anno: 1993
Regia: Steven Spielberg
Musiche: John Williams
Cast: Liam Neeson, Ben Kingsley, Ralph Fiennes, Caroline Goodall, Jonathan Sagall, Embeth Davidtz, Malgorzata Gebel, Shmuel Levy, Mark Ivanir

 

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