Cinema e donne
Cult
Soffio è un film dotato di azione anestetica, estraniante, intriso di opposti che fanno fatica a trovare una dimensione di continuità. Amore e odio, vita e morte, dentro e fuori, respiro e soffocamento, pittura e scultura irrompono silenziosi nella quotidianità della protagonista Yeon, che passivamente, trascorre le giornate sbiadite nel perfetto ritratto di una famiglia borghese. Dentro la lussuosa casa, che richiama una fortezza blindata, si susseguono le giornate tutte uguali della protagonista Yeon, una mamma premurosa che ogni giorno aiuta la figlia a fare i compiti. Yeon è anche una scultrice che lavora con pazienza alla realizzazione di una statua, un angelo con un’ala ripiegata che stenta a spiccare il volo. Dalla casa fortezza sporgono solo due balconcini dove al posto delle piante ci sono posizionate due statue contraddistinte da un bianco che come una coltre di neve avvolge e sospende la vita in un silenzio surreale. Il dentro e il fuori non riescono però a coprire l’intero spazio e così, in quella quotidianità, dagli interstizi (la parte indicibile che il dentro e il fuori non riescono a coprire) fa irruzione un Reale irrappresentabile che invade quel dentro apparentemente perfetto. Yeon scopre che il marito la tradisce ritrovando sotto il sedile della macchina un fermaglio da donna, oggetto che Yeon porta dentro sistemandolo nella testa della statua alla quale sta lavorando (statua che una volta realizzata verrà distrutta). Da fuori, stavolta attraverso il telegiornale, arriva dentro la notizia di un tentato suicidio da parte di un pericoloso uxoricida condannato a morte. Da questo momento, Yeon, come la dea Era che si vendicava punendo le amanti del suo Zeus, progetta la sua vendetta, però non contro la presunta amante del marito, bensì diventando lei stessa l’amante del pericoloso uxoricida Jang Jin, il detenuto 5796. Il nome Era etimologicamente rimanda a Hora ovvero a stagione. Yeon andrà ogni giorno in carcere a trovare il detenuto e diventerà la sua compagna. Jang Jin l’ascolta senza dire mai una parola, Yeon gli parla della sua infanzia “una volta sono morta per cinque minuti, avevo nove anni” e racconta che in quell’occasione stava annegando, le mancava il respiro, lo stesso respiro che condivide adesso con lui. Yeon porterà dentro il parlatorio del carcere i colori delle stagioni, tutte tranne l’inverno. Soffia adesso un vento nuovo, irrazionale e razionale. Le scene si susseguono quasi tutte in silenzio, punteggiate da sospiri e respiri come espressioni di un dentro e di un fuori che non riescono a integrarsi.
Respiro come desiderio di vita ma nello stesso tempo come bisogno di morte. Autodistruzione come le stagioni che subito dopo aver preso forma nella stanza del parlatorio vengono strappate via o come le foto che Yeon porta a Jang Jin che quando arrivano nella cella condivisa con altri detenuti vengono divorate e distrutte da una silenziosa e affamata gelosia. Soffio è un film dove tutto stenta a prendere forma (l’amore, la vita, l’arte, la rappresentazione) e proprio come in una dimensione onirica si fa fatica a distinguere se l’esperienza sia stata vissuta nella realtà o nel sogno, al punto che il “mi sento come in un sogno confuso” collega lo stato emotivo del marito di Yeon con quello degli spettatori. Kim Ki-duk esplora le aree geografiche più inaccessibili dei sentimenti umani. Yeon incontra il marito per la prima volta sul monte Seorak, la montagna più pittoresca della Corea e adesso incontra invece il pericoloso uxoricida nel dentro sotterraneo di un carcere buio e inaccessibile, che potrebbe richiamare delle assonanze con la casa di Norman Bates, teatro interiore delle istanze inconsce della mente. Nel film, Kim Ki-duk partecipa anche come attore/spettatore, interpretando la parte del cupo direttore del carcere. Il marito di Yeon scopre il tradimento della moglie, la segue fino ad arrivare nel carcere, insieme al direttore spiano la moglie che si lascia andare in una danza di amore e morte con il detenuto nel parlatorio. Esibizionismo e voyerismo si alternano, il marito come un voyeur ha visto tutto ciò che non poteva essere visto e che forse era stato profanato per lui. Da questo momento in poi la sua vergogna lo spingerà a cercare disperatamente di riparare la relazione che sembrava un amore perfetto, ma che invece si era trasformato per entrambi in un atteggiamento ostile. Lascia la sua amante e inizia a implorare con minacce la moglie “perché proprio lui? Sono stato tanto crudele io? vuoi che impazzisca? smettiamola per il bene di nostra figlia” una bambina silenziosa che, nonostante assiste passivamente alle dinamiche dei genitori giocando con una bambola, richiama in mente quanto scrive Freud, testimoniando così il lato attivo della femminilità.
Titolo originale: Soom
Paese di produzione. Corea del Nord
Anno: 2007
Regia: Kim Ki-duk
Sceneggiatura: Kim Ki-duk
Fotografia: Jong-moo Sung
Musiche: Song Myung-chul
Cast: Chang Chen (Jang Jin), Ha Jung-woo (marito), Park Ji-a (Yeon) Kim Ki-duk (direttore del carcere)
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