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Cinema e guerra

Arti visive

Storia della notte e destino delle comete

Franca Fabbri

Questo è il titolo suggestivo dell’installazione di Gian Maria Tosatti al Padiglione Italia della 59° Esposizione Internazionale d’Arte curata da Cecilia Alemanni.

Eugenio Viola il curatore del padiglione ha deciso quest’anno di portare un’artista a rappresentare lo stato attuale del panorama artistico italiano, ed è la prima volta che il nostro paese presenta un nome unico.

Finalmente Gian Maria Tosatti (nato a Roma nel 1981) ci offre un percorso emotivo ed esperienziale di caratura internazionale, che fonde riferimenti letterari, arti visive, teatro, performance. L’installazione è racchiusa in un prologo e due atti.

 

Gian Maria Tosatti, foto Maddalena Tartaro

 

La prima parte, la “Storia della notte”, lo si vive entrando, uno alla volta, nel lavoro da un accesso ripensato in chiave ex industriale. Si accede in grandi ambienti abitati da grosse strutture industriali, nostalgiche, e contemporaneamente senza tempo circondati motivatamente da grandi cartelli che invitano al silenzio, infatti, in lontananza si sente echeggiare, il suono emesso da un giradischi, Senza fine, romantico brano di Gino Paoli, cantato da Ornella Vanoni, scritto nel 1961. Percorrendo lo spazio, quasi in solitaria, ci si sente sovrastati dai mostri della meccanizzazione, dalla alienazione del lavoro, non senza però raccoglierne un senso di fascinazione, che contrasta con un improvviso accesso ad un’industria coeva, fredda, aggressiva, anonima e inanimata, spazi puliti e bianchi, privi di passioni.

Il primo atto, quindi ripercorre l’ascesa e il declino del miracolo industriale italiano, la distesa di capannoni tra Ragusa e Cremona, l’unico panorama paradossalmente omogeneo di un ipotetico viaggio nell’Italia di provincia che oggi riflette la frustrazione di una classe operaia giunta al capolinea. Per accentuare tutto ciò da uno spazio freddo e anonimo penzolano una serie di tubi metallici da aspirazione che accentuano una sensazione di straniamento e di spaesamento.

 

 

Ma il colpo di scena avviene quando si sale la scala che parte da questo ambiente freddo e industriale per accedere ad uno spazio domestico che nuovamente ti catapulta in un salto temporale a ritroso. Spazi domestici che ti parlano di una antica gloria con pavimentazioni decorate tipiche delle case italiane del secolo scorso e lampadari di cristallo, reti di letti abbandonati, stanze da cui puoi “spiare” come un voyeur un nuovo spazio, che si apre sotto di te, di lavoro industriale muliebre con tavoli e macchine da cucito Singer, a cui puoi accedere e come un investigatore tra i ripiani da lavoro, cogliere il senso di omologazione stringente, capire che la presenza umana è solo allusa da qualche centrino, il tutto incorniciato da lastre di ferro ossidato.

Tutto ciò a tratti ricorda il lavoro di altri importanti artisti contemporanei: la stanza domestica quello di Gregor Schneider che un anno fa espose, finalmente in Italia, la casa di N. Schmidt, con importanti differenze. Infatti Schneider afferma “Per me si tratta della dissoluzione dello spazio, di un luogo che non possiamo più conoscere. La ripetizione fino ai confini della nostra percezione, finché non ci rimane più il sospetto di ciò che non possiamo più sapere”

L’intimità claustrofobica ricreata da Gregor Schneider, nella sua accezione disorientante e angosciante contrasta con l’intimità ricreata da Tosatti nei suoi spazi domestici che sono disorientanti, ma caldi nel vissuto e nella presenza umana.

 

Al contempo la serie delle sedute dell’opificio possono vagamente ricordare l’ambiente ricreato da Elmgreen & Dragset alla fondazione Prada. Anche se la mostra dal titolo emblematico “Useless Bodies” si concentra maggiormente sul corpo contemporaneo nelle sue declinazioni come oggetto di consumo, dove il corpo si dematerializza e diviene un corpo virtuale della cui presenza non c’è più necessità, per questo motivo gli uffici di Elmgreen & Dragset sono vuoti. Pur ricordando in modo emblematico la situazione che si è creata con la pandemia, gli uffici del duo di artisti si colloca in una ipotesi futura in cui la presenza di un corpo fisico viene considerata del tutto inutile, al contrario nell’opificio di Tosatti profondamente materico e fisico addirittura “sporco” nelle pareti pittoriche, rimanda ad un corpo produttore di beni di consumo inteso ancora come “forza” lavoro.

 

 

Nell’opera di Tosatti quindi sia che ci si trovi prima nell’ambiente immersivo di un ex cementificio, poi in quello di un opificio tessile si è immersi in un mondo di lavoratori che rimandano al passato in cui la presenza umana è fondamentale, non come nel presente in cui il corpo arriva quasi ad essere non più necessario perdendo quindi i suoi doveri ma anche i suoi diritti.

E quindi il gran finale.

L’acme si raggiunge con l’ultima sala, quella non fotografabile per l’oscurità e forse per questo quella dotata di maggiore poesia.

Racchiusa da vetrate, si percorre attraverso un camminamento che ricorda gli attracchi delle barche a Venezia. La stanza è inondata d’acqua increspata, a perdita d’occhio, e sul fondo si accendono e si spengono delle luci che ricordano delle lucciole, ma anche delle barche lontananti che si avvicinano nell’oscurità.

Le lucciole riecheggiano quelle del famoso articolo di Pier Paolo Pasolini (“darei tutta la Montedison per una sola lucciola”), ma forse anche le stelle invocate da Dante, che nel buio della quotidianità e della storia attuale vorremmo riuscire a rivedere.

 

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