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Cinema e donne

Approfondimento

Trascendere il corpo di Edwige Fenech

Fratture e ricomposizioni di un’icona del cinema italiano

Giulio Olesen

Nel buio della sala cinematografica degli anni Settanta, la fantasia del pubblico italiano ha prodotto sogni intensi, erotici e violenti. Un decennio trafitto da conflitti fragorosi e lancinanti ha trasmesso sulla pellicola un tumulto di pulsioni generazionali, politiche e di costume, catturate sia dal cinema d’autore che dal cinema popolare. Nel decennio lungo del secolo breve, poche donne hanno trainato le sale di provincia e di prima visione quanto Edwige Fenech. Icona di un cinema tanto apprezzato dal pubblico quanto bistrattato dalla critica, la Fenech e, soprattutto, il suo corpo, ha agitato le coscienze in maniera trasversale. Guardata con sospetto dall’Italia cattolica e conservatrice, ma anche da chi lottava per affermare un ruolo nuovo della donna, finalmente sottratta al controllo (ed allo sguardo) dell’uomo, la Fenech e la sua immagine racchiudono in sé le contraddizioni di un paese nuovo e antico. Nata in Algeria da padre maltese e madre italiana, comincia giovanissima a girare l’Europa tra piccole produzioni fino ad affermarsi in Italia sul finire degli anni Sessanta. Ragazza madre, lavora incessantemente a quasi settanta film in poco più di un decennio, film scritti sul e per il suo corpo. Amata, disprezzata, desiderata, invidiata, Edwige Fenech si muove agilmente in un mondo, non solo nel cinema, dominato da uomini.

 

La pretora di Lucio Fulci, 1976.

 

Difatti, di lei parlano soprattutto gli uomini: i talent scout, gli sceneggiatori, i registi e i produttori che ne hanno plasmato l’immagine cinematografica, e i critici che, nonostante le sonore stroncature dei film di cui faceva parte, ne lodavano le forme. Sono uomini anche coloro che oggi ne rivalutano la carriera davanti la macchina da presa, all’interno di un processo più ampio di riconsiderazione del cinema popolare, dalla B alla Z. In Italia, il corpo della Fenech è spesso il vero protagonista di queste riscritture del cinema di genere, oggetto di proiezioni e nostalgie maschili. Il corpo come simbolo di un immaginario e icona di un desiderio, allo stesso tempo bene di consumo ed inarrivabile simulacro divino. La traiettoria artistica di Edwige Fenech è però quanto più distante da quest’immagine bidimensionale in cui è stata rinchiusa da quanti dal suo corpo sono stati sedotti. Rarissimo esempio all’interno del panorama cinematografico italiano, la Fenech diventa produttrice televisiva a partire dagli anni Novanta fino ad affermarsi a cavallo del nuovo millennio come produttrice cinematografica. È in questo ruolo che dapprima riesce a ritagliarsi ruoli più seri nella sua carriera di attrice, ormai al tramonto, fino a produrre autori italiani ed internazionali. A chiudere il cerchio, emancipandosi, semmai ce ne fosse stato il bisogno, da quel cinema che l’ha resa famosa, ritorna a recitare sotto la direzione di Pupi Avati in La quattordicesima domenica del tempo ordinario (2023).

 

La quattordicesima domenica del tempo ordinario di Pupi Avati, 2023.

 

Non che la Fenech non fosse stata notata dai ‘maestri’ negli anni Settanta. È però ancora il suo corpo il veicolo espressivo che i registi usano per comunicare con il proprio pubblico. Tognazzi (Cattivi pensieri, 1976), Steno (La patata bollente; Dottor Jekyll e gentile signora, 1979), Risi (Sono fotogenico, 1980), Festa Campanile (Il ladrone, 1980), Sordi (Io e Caterina, 1980) la vogliono nei loro film sul finire del decennio e sfruttano il valore simbolico delle sue forme. Queste forme sinuose e abbondanti racchiudono infatti le contraddizioni del contesto sociale e culturale italiano e nemmeno i maestri se ne vogliono e possono privare. Gli anni Settanta hanno mostrato e continuano a mostrare un maschio in crisi alla cui tremolante mascolinità si contrappongono donne emancipate sul piano economico, emotivo e sessuale. L’affermazione della Fenech avviene proprio attraverso un genere che mette in risalto la crisi esistenziale del maschio italiano, il giallo. Rinnovato da Dario Argento a partire da L’uccello dalle piume di cristallo (1970), il giallo presenta il corpo femminile come obiettivo principale della violenza di uomini consumati dalle proprie ossessioni. La violenza diviene valvola di sfogo di un trauma esistenziale legato alla perdita di controllo sul femminile. In meno di due anni Sergio Martino dirige l’attrice nel trittico, Lo strano vizio della signora Ward (1971), Tutti i colori del buio (1972), e Il tuo vizio è una porta chiusa e solo io ne ho la chiave (1972), accompagnato da Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? (1972) di Giuliano Carnimeo. I film sono costellati da figure maschili violente sia psicologicamente che fisicamente. I personaggi interpretati dalla Fenech sono tormentati da uomini cha la vogliono sottomessa, siano essi mariti, padri, o capi di sette dedite a riti sessuali. Pienamente consapevoli del pubblico di riferimento, i film utilizzano l’emancipazione sessuale della donna come un’arma a doppio taglio, delineandola in egual misura sul piano della colpa e della liberazione. Il film di Giuliano Carnimeo porta al culmine questa dinamica presentando una protagonista tormentata dal suo passato dedito all’amore libero. Il killer che perseguita lei e le giovani inquiline di un palazzo borghese risulterà il padre di una ragazza incapace di accettare l’omosessualità della figlia e deciso a punire le donne colpevoli della sua corruzione.

 

L'insegnante viene a casa di Michele Massimo Tarantini, 1978.

 

Al di fuori delle docce bollenti, immancabili protagoniste della filmografia di Edwige Fenech, la desolante rappresentazione del maschio italiano rimane il fulcro del vero cavallo di battaglia dell’attrice, la commedia. Protagonista di filoni e sotto-filoni della commedia (decamerotica, sexy o scollacciata, militaresca, scolastica, poliziesca), la Fenech si trasforma da oggetto a vero e proprio tema dei suoi film. Il pubblico va a vedere i “film con la Fenech” senza curarsi particolarmente di conoscerne la trama (spesso obiettivamente scarna). I titoli, spesso ideati e imposti dall’esperto produttore Luciano Martino, promettono più di quanto mantengono. Del sesso si parla ma non si mostra, e i nudi sporadici alimentano soltanto le fantasie da pellicola dei maschi che lo agognano. Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda (1972) di Mariano Laurenti, primo grande successo del genere, si allaccia profanamente al successo de Il Decameron (1971) di Pasolini contribuendo a scardinare la morale sessuale del pubblico italiano. Popolato da curati lascivi e mariti cornuti, il film ci mostra ancora donne in pieno controllo del loro corpo e dei propri piaceri. Anche in veste di prostitute, come in Giovannona Coscialunga disonorata con onore (Sergio Martino, 1973), risplendono al confronto di uomini che ostentano un potere tanto corrotto quanto impotente. Più spesso, però, Edwige Fenech interpreta professioniste in carriera: insegnanti (L’insegnante, 1975) poliziotte (La poliziotta fa carriera, 1976), giudici (La pretora, 1976), dottoresse (La dottoressa del distretto militare, 1976) che relegano al sogno il desiderio di maschi repressi. La comicità più bassa e “corporale” abbonda sui volti sfigurati dall’autoerotismo cameratista dell’italiano medio, prestandosi a divenire lo specchio deformato di una bellezza inarrivabile. 

Sul finire del decennio non è però più abbastanza per la Fenech. Se finalmente le viene concesso di usare la sua voce in Io e Caterina, il cinema non riesce ancora a scrollarle di dosso il suo feticcio. Le televisioni private, catalizzatrici di un cambiamento epocale nel panorama culturale italiano, poggiano le fondamenta per un una nuova fase artistica dell’attrice. Negli anni Ottanta, i network televisivi sono ormai i principali finanziatori della produzione audiovisiva italiana e la distribuzione guarda prima al tubo catodico che alla sala cinematografica. Le reti private trasmettono film a tutte le ore attingendo dallo stesso bacino di contenuti che aveva riempito il mercato di profondità del cinema italiano sin dagli anni Sessanta. Le sale chiudono, sostituite da multiplex e centri commerciali. Se gli adulti si chiudono in casa, quel che rimane del cinema popolare punta al pubblico giovane attraverso un immaginario televisivo che ne facilita la successiva finestra distributiva. È il linguaggio della pubblicità, seduttivo ma sanitizzato. Non è più il tempo degli eccessi del cinema di genere se il target del prodotto si trasforma man mano nel pubblico generalista. Sul finire degli anni Ottanta, in un contesto ormai caratterizzato dal duopolio Mediaset-Rai, l’intera produzione audiovisiva subisce un’involuzione verso il contenuto nazional popolare tanto caro ai distributori pubblicitari. In questo panorama mediatico, Edwige Fenech riesce a reinventarsi e introdursi nei salotti televisivi italiani, dapprima in Mediaset (Bene, bravi, bis; Risatissime) e poi in Rai con Domenica In fino al Festival di Sanremo del 1991. La Fenech presenta una nuova immagine di sé, lasciandosi alle spalle gli sguardi ammiccanti per dar spazio al nuovo ruolo di accogliente padrona di casa nel servizio pubblico.

È proprio nel 1991, quando il cinema non chiama più e la carriera da presentatrice televisiva prende la via del tramonto, che fonda la sua casa di produzione assieme a suo figlio Edwin, Immagine e Cinema S.p.a. Mettendo a frutto tutta la sua esperienza nel mondo del cinema e della televisione, attraversa gli anni Novanta producendo fiction per la televisione. Senza rinnegare il proprio passato, nelle interviste che concede per pubblicizzare i suoi lavori comincia a ricomporre il tessuto sfilacciato della sua immagine pubblica questa volta in funzione di sé. Come imprenditrice dello spettacolo sa che ha bisogno del suo nome in locandina per avviare la sua casa di produzione e si fa cucire addosso i ruoli drammatici che non aveva avuto nei decenni precedenti (Il coraggio di Anna, 1992; Delitti privati, 1993), fino a scomparire pian piano dietro la macchina da presa. Torna al cinema producendo Ferdinando e Carolina (1999) di Lina Wertmüller, passando per il grande cinema internazionale con Il Mercante di Venezia di Michael Radford (2004) fino al suo ultimo lavoro per il cinema, Gorbaciof (2010) di Stefano Incerti. Nelle interviste è ormai Edwige Fenech la produttrice di successo, ma andiamo verso il periodo dello stracult. Le sempre più costose riedizioni in DVD dei film di genere la riportano ancora verso il passato, offrendole passerelle internazionali che ne celebrano la carriera di attrice all’interno di una cornice critica che fanno del suo erotismo un semplice tassello di un mosaico più complesso. 

Artista polivalente, Edwige Fenech ha navigato con intraprendenza 50 anni di cinema italiano e internazionale, attraversando indenne cambiamenti epocali di forme e contenuti. Il suo contributo al cinema di genere l’ha resa un simbolo di un modello produttivo ormai oggetto di culto da parte di appassionati e cineasti. Su esplicita richiesta del produttore Quentin Tarantino, compare in un breve cameo in Hostel: Part II (2007) di Eli Roth come insegnante di pittura e, non a caso, il Generale britannico interpretato da Mike Myers in Bastardi senza gloria (Tarantino, 2009) si chiama Ed Fenech. Come e più di altre icone erotiche degli anni Settanta, Edwige Fenech è riuscita a trascendere il proprio corpo o, per meglio dire, ad armonizzarne il significato. Rappresenta oggi la donna per eccellenza di un cinema di genere rivalutato e celebrato, capace di ricomporre la frattura tra oggetto di culto e di consumo. Con determinazione iconoclasta, senza furia e tramite il suo lavoro dietro e davanti la macchina da presa, la Fenech ha riordinato i pezzi di un’immagine frammentata ed eterodiretta, affidata alle fantasie del suo pubblico e al volere di produttori, registi e sceneggiatori più che al proprio. Non più solamente espressione veicolata ma veicolo espressivo della sua immagine.

 

Giulio Olesen Bournemouth University, Lecturer in Media

 

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